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Fritz Leiber: Scacco al tempo

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Fritz Leiber Scacco al tempo

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Carr Mackay ha un lavoro tranquillo, una fidanzata che lo spinge a far carriera e una vita tutto sommato ben pianificata. Ma ecco che un giorno conosce una strana ragazza, bella e alquanto terrorizzata, e da quel momento la sua vita scivola lungo binari diversi. Scopre di possedere un oscuro potere che il mondo attorno a lui sembra aver perduto, e soprattutto si rende conto che il tempo non è uguale per tutti. O meglio, che non tutti sono obbligati a rispettare la sceneggiatura cosmica imposta silenziosamente al genere umano dall’ordine delle cose. Da quel giorno la vita cambia per Carr Mackay, in modo radicale e spaventoso, poiché fra i pupazzi che tutt’intorno continuano la loro recita si nascondono altri ribelli niente affatto amichevoli…

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Certamente, se l’intenzione del compositore era stata che quello fosse un chiaro di luna, si trattava d’un chiaro di luna che illuminava una tempesta oceanica sormontata da alte colonne d’una luminosità argentea che pioveva giù dagli squarci di nuvole sfilacciate.

Jane aveva stretto le labbra con forza. I suoi occhi parevano cercare freneticamente la nota successiva su un invisibile spartito. Il suo corpo tremava mentre le braccia picchiavano giù dall’articolazione delle spalle. D’un tratto finì. Nel risonante silenzio Carr le chiese con calma: — Questo è più vicino? Al ritmo della vita voglio dire.

Lei fece una piccola smorfia mentre si alzava.

— Ancora troppo piacevole — disse. — Ma c’è un accenno.

Mentre si avviavano verso l’uscita, Carr guardò dietro di sé. — Vi rendete conto che non abbiamo scambiato una sola parola con qualcuno stasera? — disse.

La ragazza gli rivolse un sorriso forzato. — La mia immaginazione non mi spinge a fare cose troppo intelligenti, non è vero? — replicò, e quando lui fece per protestare: — Sì, temo che vi sareste divertito molto di più con Marcia o con l’amica di Midge.

— Avete una bella memoria sapete — esclamò Carr sorpreso. — Non mi sarei mai sognato che voi…

S’interruppe. Lei aveva chinato la testa. Non riuscì a capire se stesse piangendo o ridendo.

— …l’amica di Midge… — La sentì ripetere con voce soffocata.

— Conoscete Tom Elvested? — l’incalzò lui d’un tratto.

La ragazza ignorò la domanda e alzò lo sguardo su di lui, con un sorriso incerto. — Ma dal momento che non avete un appuntamento con nessun altro salvo me — disse — dovrete cercare di godervi al meglio le mie abitudini antisociali. Vediamo, di solito di notte ho l’abitudine di vagare dalle parti della Rush Street, e magari fino a South State, per annusare la notte e l’ora… e osservare le facce morte. Potrei condurvi là, o…

— Andrà bene — disse Carr.

— O…

Camminarono vicini alla cordonatura del marciapiede, sfiorando la folla. Stavano passando davanti all’atrio di un cinema, dall’illuminazione così intensa da far male agli occhi, in cui sembravano turbinare manifesti sensazionali con mulinelli giallo-purpurei che parevano aver intrappolato nelle loro pieghe vorticose un’interminabile folla di bionde dorate, eroi dagli occhi cupi, borse gonfie di denaro e mani disincarnate che ghermivano.

Jane si fermò.

— Oppure potrei portarvi qua dentro — disse.

Obbediente Carr virò verso la biglietteria, ma lei lo trattenne per il braccio e gli passò davanti entrando nell’atrio esterno.

— Ve lo dimostrerò — ribadì la ragazza, mezzo-allegra, mezzo-disperata come la giudicò lui. — Ve l’ho fatto vedere al bar e al negozio di musica, ma…

Carr scrollò le spalle e trattenne il fiato in attesa dell’inevitabile.

Passarono direttamente davanti alla cassa e attraversarono l’ingresso nella corsia centrale.

Carr esalò il respiro trattenuto a lungo e sogghignò. Forse conosce qualcuno qua dentro, pensò.

Altrimenti, chissà? Forse si poteva farla franca quasi con tutto se si era abbastanza sicuri di sé e si sceglievano i momenti giusti.

La sala era piena soltanto per metà, c’erano parecchie file vuote sul fondo. S’infilarono in una di queste, in mezzo all’oscurità ammiccante, e si sedettero. Ben presto il vorticare delle ombre grigie sullo schermo cominciò ad assumere un po’ di senso.

C’erano un uomo e una donna che si stavano sposando, o risposando, dopo un divorzio, era difficile capirlo. Poi lei lo lasciava perché pensava che lui fosse interessato soltanto agli affari. Poi lei tornava da lui ma lui la lasciava perché pensava che lei fosse interessata soltanto alla vita di società. Poi lui tornava, ma si lasciavano tutt’e due di nuovo, simultaneamente.

Tutt’intorno a loro s’innalzava il sommesso respiro e il sonnolento masticare di gomma americana d’una umanità drogata.

Poi l’uomo e la donna si precipitavano entrambi al capezzale del loro figlio morente che durante tutto quel tempo era stato parcheggiato in un’accademia militare. Ma il ragazzo si riprendeva dalla malattia e la donna li lasciava tutt’e due per il loro bene, e poco tempo dopo l’uomo faceva la stessa cosa. Poi il ragazzo li lasciava entrambi.

— Giocate a scacchi? — gli chiese Jane a un tratto.

Carr annuì.

— Venite — lo sollecitò lei. — Conosco un posto. Uscirono in fretta dal quartiere dei cinematografi infilandosi in una zona di silenziosi edifici adibiti a uffici.

Carr osservò: — Suppongo sia dovuto al fatto che non hanno un pubblico a osservarli mentre il film viene girato il motivo per cui a volte gli attori sembrano così indifferenti. Avere un vero pubblico li metterebbe in sintonia.

— Sì — continuò lei rapidamente e a bassa voce. — Un pubblico che vi osservi ogni singolo minuto, aspettando che facciate una mossa falsa… — La mano della ragazza si strinse sul suo braccio mentre alzava gli occhi a fissarlo. — Spero che non dobbiate mai imparare a recitare in quel modo. Voglio dire, quando non è soltanto questione di apparire convincenti a un pubblico che, dopo tutto, non può in effetti farci alcun male, ma là, dove il minimo sbaglio… — S’interruppe.

— Vorreste dire per esempio — aggiunse Carr — come se una persona fosse stata rinchiusa, forse ingiustamente, in un manicomio e fosse riuscita a fuggire.

— No — disse lei brevemente. — Non intendo dire questo.

Infilò l’imboccatura nera e fosca d’una caverna fiancheggiata da vetrine buie che esibivano fiocamente, sulla sinistra, coltelli e altra ferramenta minacciosa e sulla destra, dietro a sbarre sottili, anelli di fidanzamento finemente lavorati. Spingendo una porta laterale accanto a quella girevole chiusa a chiave entrarono in un atrio cupo e squallido, pavimentato con minuscole piastrelle di marmo e circondato dalle pareti grigliate di ferro di vetusti ascensori. Una lancetta rotante che si muoveva a scatti indicava che uno degli ascensori era ancora in funzione, ma Jane si diresse invece verso una delle scale sprofondate nell’ombra.

— Spero non vi dispiaccia — disse. — Sono tredici piani, ma non riesco a sopportare gli ascensori.

Carr sogghignò rassegnato.

Emersero infine in un corridoio dove, su una porta illuminata di vetro smerigliato spiccava la scritta: CAISSA — CLUB SCACCHISTICO.

Dietro quella porta si apriva una lunga stanza. Un’austerità tetra e negligente, file disordinate di tavolini e un pavimento sudicio cosparso di sigarette schiacciate… tutto stava a indicare che quel posto era il quartier generale di una fosca monomania.

Alcuni anziani stavano giocando vicino alla porta, completamente assorti nelle partite. Uno di loro, dalla barba bianca e sporca, stava seguendo in silenzio le mosse, scuotendo di tanto in tanto la testa, oppure indicando, con le dita artritiche, la mossa che avrebbe portato alla vittoria.

Carr e Jane raggiunsero senza far rumore l’estremità opposta della sala accanto alle finestre, trovarono una scatola di pezzi consunti dal lungo uso almeno quanto la scacchiera, che era semi cancellata, e iniziarono una partita.

Ben presto un’eccitazione infuriante, dimenticata da parecchi anni, afferrò Carr nella sua morsa. Era tornato in quel piccolo implacabile universo in cui il significato delle cose si riduceva agli stratagemmi in cui le torri merlate stabiliscono intangibili pareti difensive, gli alfieri sgusciavano astutamente al di là delle irte barricate e i cavalli balzano fuori in improvvisi attacchi sul fianco, come se sbucassero da tortuosi passaggi segreti medievali.

Giocarono tre partite lente e spietate. La ragazza vinse le prime due, ma Carr era troppo intento al gioco per dispiacersene troppo. Non aveva mai visto una donna giocare con tanta asessuata concentrazione. Sedeva sporgendosi in avanti in un modo che metteva in evidenza la sua figura esile, i piedi sul traverso della sedia, le ginocchia congiunte, la testa protesa come quella di un uccello. Con una mano si sorreggeva il gomito. Fra le due dita dell’altra mano si arricciava il fumo della sigaretta. Il suo volto era allo stesso tempo teso e sereno: Carr pensò al millenario busto di Nefertiti, la principessa egiziana morta da decine di secoli, come se Jane si fosse smarrita in una calma prossima all’eternità o alla tomba.

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