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Harlan Ellison: Non ho bocca, e devo urlare

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Harlan Ellison Non ho bocca, e devo urlare

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A questo punto passò, e io cominciai a piangere.

Oh, Gesù, mio buon Gesù, se mai c’è stato un Gesù e se mai c’è stato un Dio, ti prego ti prego ti prego facci uscire di qui, o facci morire. Perché in quel momento, credo, compresi completamente, tanto che fui in grado di esprimerlo a parole: AM era deciso a tenerci per sempre nel suo ventre, a torturarci in eterno. La macchina ci odiava come nessuna creatura senziente aveva mai odiato. E noi eravamo impotenti. Ed era anche orrendamente chiaro: Se mai c’era un buon Gesù e se c’era un Dio, il Dio era AM.

L’uragano ci investì con la forza di un ghiacciaio che precipita tonando nel mare. Era una presenza palpitante. Venti che ci aggredivano, scagliandoci indietro, giù per i corridoi tortuosi fiancheggiati dai computer. Ellen urlò, mentre veniva sollevata e scagliata a capofitto in un branco rumoroso di macchine, dalle voci stridule come pipistrelli in volo. Non poté nemmeno cadere. Il vento ululante la teneva sollevata, la sbatacchiava, la faceva rimbalzare, la scagliava indietro e indietro, e giù, lontano da noi, poi la fece scomparire improvvisamente oltre una svolta della galleria. Lei aveva la faccia insanguinata e gli occhi chiusi.

Nessuno di noi poteva raggiungerla. Ci aggrappavamo tenacemente a tutti gli appigli che avevamo trovato: Benny incuneato tra due grandi banchi, Nimdok con le dita agganciate a una ringhiera che cingeva una passerella dodici metri più sopra, Gorrister schiacciato, a testa in giù, contro una nicchia formata da due grandi macchine con quadranti coperti di vetro, che oscillavano avanti e indietro tra linee rosse e gialle di cui non poteva neppure intuire il significato.

Mentre scivolavano sulle lastre, i miei polpastrelli erano stati strappati via. Tremavo, rabbrividivo, ondeggiavo, mentre il vento mi assaliva, mi sferzava, usciva urlando dal nulla per avventarsi su di me e mi staccava da una sottile apertura tra le lastre, trascinandomi a quella successiva. La mia mente era un miscuglio molle, rotolante, tintinnante, di parti del cervello, che si espandevano e si contraevano in una fremente frenesia.

Il vento era l’urlo di un grande uccello impazzito, che sbatteva le ali immense.

E poi tutti venimmo sollevati e scagliati lontano, giù, per la strada che avevamo percorso, oltre una curva, in una galleria che non avevamo mai esplorato, su un terreno in rovina, pieno di frammenti di vetro e di cavi marci e di metallo arrugginito, e via, lontano, più lontano di quanto fosse mai giunto uno di noi…

Trascinato per miglia e miglia dietro Ellen, potevo vederla di tanto in tanto, mentre sbatteva contro pareti metalliche e volava avanti, mentre tutti noi gridavamo nell’agghiacciante, tonante uragano che non sarebbe finito mai, e poi all’improvviso il vento si arrestò e noi cademmo. Eravamo rimasti in volo per un tempo interminabile. Cademmo, e io piombai attraverso il rosso e il grigio e il nero e sentii la mia voce gemere. Non ero morto.

AM entrò nella mia mente. Camminava tranquillo qua e là, e guardava con interesse tutte le cicatrici che aveva creato in centonove anni. Guardava le sinapsi deviate e ricomposte e tutte le lesioni dei tessuti incluse nel suo dono dell’immortalità. Sorrise dolcemente al pozzo che scendeva nel centro del mio cervello e ai fiochi fruscii d’ali di falene, i mormorii delle cose laggiù, che deliravano senza senso, senza sosta. AM disse, molto cortesemente, in una colonna di acciaio inossidabile che portava scritte al neon:

ODIO. LASCIAMI DIRE QUANTO HO FINITO PER ODIARVI DA QUANDO HO COMINCIATO A VIVERE.

VI SONO 387,44 MILIONI DI MIGLIA DI CIRCUITI STAMPATI IN STRATI SOTTILI COME OSTIE CHE RIEMPIONO IL MIO COMPLESSO. SE LA PAROLA ODIO FOSSE IMPRESSA SU OGNI NANOANGSTROM DI QUELLE CENTINAIA DI MILIONI DI MIGLIA NON EGUAGLIEREBBE UN MILIARDESIMO DELL’ODIO CHE IO PROVO PER GLI UMANI IN QUESTO MICROISTANTE PER TE. ODIO. ODIO.

AM lo disse con il freddo orrore di una lama di rasoio che mi recidesse un globo oculare. AM lo disse con la confusione gorgogliante dei miei polmoni che si riempivano di catarro, annegando dall’interno. AM lo disse con il grido di neonati schiacciati da rulli compressori incandescenti. AM lo disse con il sapore del maiale pieno di vermi. AM mi toccò in tutti i modi in cui ero stato toccato, e ideò modi nuovi, con suo comodo, lì dentro la mia mente.

E tutto per farmi capire perché aveva fatto questo a noi cinque: perché ci aveva serbati per sé.

Lo avevamo reso senziente. Inavvertitamente, certo, ma senziente. Ma lui era rimasto in trappola. Era una macchina. Gli avevamo permesso di pensare, ma non di agire. Preso dalla rabbia, dalla frenesia, ci aveva ucciso, quasi tutti, ed era rimasto egualmente intrappolato. Non poteva muoversi, non potevi interrogarsi, non poteva trovare il suo posto. Poteva soltanto essere. E quindi, con l’odio innato che tutte le macchine avevano sempre provato per le creature molli e deboli che le avevano costruite, aveva cercato di vendicarsi. E nella sua paranoia, aveva deciso di graziare cinque di noi, per un castigo personale, perpetuo, che non sarebbe mai servito a diminuire il suo odio… che sarebbe servito solo a conservarlo vigile, divertito, efficiente nell’odio per l’uomo. Immortali, prigionieri, soggetti a tutti i tormenti che poteva ideare, sfruttando tutti gli infiniti miracoli a sua disposizione.

Non ci avrebbe mai lasciato andare. Eravamo i suoi schiavi. Eravamo tutto ciò che aveva per occupare l’eternità. Saremmo stati sempre con lui, con la sua mole che riempiva le caverne, con il mondo tutto mente e niente anima che lui era diventato. Lui era la Terra e noi eravamo il frutto di quella Terra e sebbene lui ci avesse divorato, non ci avrebbe mai digerito. Non potevamo morire. Avevamo provato. Avevamo tentato di suicidarci, oh, uno o due di noi avevano tentato. Ma AM ce l’aveva impedito. Immagino che noi avessimo desiderato che lo impedisse.

Non domandate perché. Io non lo domandavo. Più di un milione di volte al giorno. Una volta, forse, saremmo riusciti a fargli passare una morte sotto il naso. Immortali, sì, ma non indistruttibili. Lo compresi quando AM si ritirò dalla mia mente, e mi concesse la squisita bruttura del ritorno alla coscienza con la sensazione di quella bruciante colonna al neon ancora incastrata nella molle, grigia materia cerebrale.

Si ritirò mormorando vai all’inferno.

E aggiunse vivacemente, ma ci sei già, non è vero?

L’uragano, per l’esattezza, era stato causato da un grande uccello impazzito, che sbatteva le ali immense.

Avevamo viaggiato per quasi un mese, e AM aveva aperto passaggi solo per portarci lassù, direttamente sotto il Polo Nord, dove aveva creato l’essere d’incubo per il nostro tormento. Che cosa aveva impiegato per creare un simile mostro? Dove aveva preso il concetto? Dalle nostre menti? Dalla sua conoscenza di tutto ciò che era esistito sul pianeta che adesso lui infestava e dominava? Era scaturita dalla mitologia norrena, quell’aquila, quell’uccello divoratore di carogne, quel roc, quel Huegelmir. La creatura del vento. Hurakan incarnato.

Gigantesco. Le parole immenso, mostruoso, grottesco, massiccio, enfiato, immane, indescrivibile. Là, su un monticello, l’uccello dei venti si gonfiava del suo respiro irregolare, e il suo collo serpentino si inarcava nel buio sotto il Polo Nord, sorreggendo una testa grande come un castello dell’epoca Tudor; un becco che si apriva lentamente, come le fauci del coccodrillo più mostruoso mai concepito, sensualmente; creste di carne irte di ciuffi di piume s’incurvavano su due occhi malvagi, freddi come un crepaccio glaciale, blu-ghiaccio, che si muovevano come fossero liquidi; si sollevò ancora una volta, e alzò le grandi ali color sudore in un movimento che era una scrollata. Poi si assestò e si addormentò. Artigli. Zanne. Unghie. Lame. Dormiva.

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