Harlan Ellison - Jeffty ha cinque anni

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La nostalgica storia di un bambino che si rifiuta di crescere, per continuare ad ascoltare i programmi del passato.
Vincitore dei premi Hugo e Nebula per il miglior racconto breve
in 1978.
Vincitore del British Fantasy Award in 1979.
Nominato per il World Fantasy Award in 1978.

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Harlan Ellison

Jeffty ha cinque anni

Quando avevo cinque anni, c’era un ragazzino con cui giocavo, Jeffty. Il suo vero nome era Jeff Kinzer, ma tutti quelli che giocavano con lui lo chiamavano Jeffty. Tutti e due avevamo cinque anni, e ci divertiva molto giocare insieme.

Quando avevo cinque anni una Clark Bar era grossa da ogni parte come il manico di una mazza da baseball, lunga quasi quindici centimetri, ed era rivestita di vera cioccolata, ed era piacevolmente croccante quando la si addentava a fondo, e la carta in cui era avvolta aveva un odore fresco e buono quando la si toglieva via a un’estremità, ripiegandola indietro per stringerla comodamente tra le dita senza che fondesse. Oggi una Clark Bar è sottile come una carta di credito, rivestita da qualche porcheria artificiale, dal sapore orrendo, che finge d’essere cioccolata, non scricchiola più quando la si addenta, è molliccia, e costa venti centesimi, invece degli onesti cinque di un tempo, e vi truffano avvolgendola nella carta in modo tale da farvi credere che è grossa quanto vent’anni fa, ma non è vero; è sottile, cattiva, ha un sapore ripugnante, non vale un soldo, e ancora meno venti centesimi.

Quando avevo quell’età, cinque anni, fui mandato per due anni a casa di mia zia Patricia, a Buffalo (New York) perché mio padre attraversava un brutto periodo: la zia Patricia era molto bella e aveva sposato un agente di cambio. Si presero cura di me finché non ebbi sette anni. Poi tornai a casa, e subito andai a trovare Jeffty, per giocare insieme.

Io avevo sette anni, Jeffty ancora cinque. Allora, non notai nessuna differenza. Che cosa potevo saperne? Avevo soltanto sette anni.

A sette anni avevo l’abitudine di stendermi sulla pancia davanti alla nostra radio Atwart Kent, ad ascoltare la roba migliore. Avevo legato il filo di terra al radiatore, e me ne stavo lì sul pavimento con i miei album da colorare e le mie Crayolas (quando c’erano soltanto sedici diversi colori nella scatola), ad ascoltare la rete rossa della NBC: Jack Benny nel programma Jelly-O , Amos ’n Andy, Edgar Bergen e Charlie McCarthy nel programma di Chase e Sanborn. One Man’s Family , First Nighter; la rete blu della NBC: Easy Aces , Walter Winchell , Information Please , Death Valley Days ; e meglio di tutti, il Mutual Network con Green Hornet, Lone Ranger, The Shadow e Quiet Please. Oggi, quando accendo la radio della mia macchina e vado da un’estremità all’altra del quadrante, tutto quello che ricevo sono orchestre di cento archi, oppure banali programmi per casalinghe e camionisti ottusi, in cui ospiti petulanti discutono delle loro perversioni sessuali, o musica rock così forte da farmi male agli orecchi.

Quando ebbi dieci anni, mio nonno morì di vecchiaia. Io ero un ragazzino molesto , per cui mi spedirono alla scuola militare, perché qualcuno mi raddrizzasse come si deve.

Tornai quando avevo quattordici anni. Jeffty aveva sempre cinque anni.

Quando avevo cinque anni, ero solito andare al cinema il sabato pomeriggio, una matinée costava dieci centesimi e usavano vero burro sul popcorn, e io ero sempre sicuro che avrei visto Lash LaRue, o Wild Bill Elliot nelle vesti di Red Ryder, con Bobby Blake nei panni di Little Brever, o Roy Rogers, o Johnny Mack Brown; o un film dell’orrore come House of Horrors con Rondo Hatton nella parte dello Strangolatore, oppure Il bacio della pantera , La Mummia o Ho sposato una strega con Friedrich March e Veronika Lake, più un episodio di un grande serial come The Shadow con Victor Jory, o Dick Tracy o Flash Gordon ; e tre disegni animati; e un documentario di viaggi di James Fitzpatrick; e il cinegiornale Movietone ; e un programma di canzonette e, se rimanevo fino a tardi, un giro di bingo o keno, e frittelle e patatine fritte. Oggi vado al cinema e vedo Clint Eastwood che fa saltare la testa alla gente come meloni maturi.

A diciotto anni andai al college. Jeffty aveva sempre cinque anni. Tornai durante l’estate per lavorare nella gioielleria di mio zio Joe. Jeffty non era cambiato. Adesso sapevo che c’era qualcosa di diverso in lui, qualcosa di strano. Jeffty aveva sempre cinque anni e non un giorno di più.

A ventidue anni tornai a casa per sempre. Per aprire una filiale dei televisori Sony in città, la prima. Vedevo Jeffty, di tanto in tanto. Aveva cinque anni.

Ora le cose vanno meglio in molti sensi. La gente non muore più per le vecchie malattie. Le macchine viaggiano più veloci e vi fanno arrivare a destinazione più in fretta e su strade migliori. Le camicie sono più morbide e sembrano seta. Abbiamo i tascabili, anche se costano quanto un tempo costavano i rilegati. Quando sono a corto di fondi in banca posso vivere con le carte di credito fino a quando le cose si rimettono al meglio. Ma sono più che convinto che abbiamo perso un sacco di roba buona. Lo sapevate che non è più possibile acquistare linoleum per i pavimenti, ma soltanto rivestiture in vinyl? Non ci sono più cose come le tele cerate; non respirerete mai più i buoni odori che uscivano dalla cucina di vostra nonna. I mobili non sono più fatti per durare trent’anni o più, perché hanno fatto un’inchiesta e hanno scoperto che ai giovani inquilini piace buttar via l’arredamento ogni sette anni e sostituirlo con i nuovi componibili a colori. I dischi non danno la giusta sensazione; non sono spessi e robusti come quelli vecchi, sono sottili e si possono piegare… e questo non mi sembra giusto. I ristoranti non servono più la panna in caraffe, soltanto quella sbobbetta artificiale in vaschette di plastica, e una sola non basta mai a far arrivare il caffè al colore giusto. Dovunque si vada, le città sembrano tutte uguali con i loro Burger Kings e i MacDonald’s e i 7-Eleven e i motel e shopping center. Le cose non potrebbero andar meglio, ma perché continuo a pensare al passato?

Ciò che intendo, quando dico che aveva sempre cinque anni, non è che Jeffty fosse ritardato. No, niente di tutto questo. Intelligente come una frusta per uno di cinque anni; acuto, svelto, sveglio, uno strano ragazzino.

Era alto un metro, piccolo per la sua età, ma perfettamente formato, niente testa grossa, niente mascella strana, no, niente. Un ragazzino simpatico di cinque anni, dall’aspetto normale. Salvo che avrebbe dovuto avere la mia stessa età: ventidue anni.

Quando parlava, lo faceva con la voce squillante di soprano di un bambino di cinque anni; quando camminava, lo faceva con i saltelli e gli strascicamenti di un cinquenne; quando si rivolgeva a voi, rivelava gli interessi di un cinquenne… fumetti, soldatini, un pezzetto di cartone fissato sul davanti della bicicletta, cosicché il suono prodotto dai raggi che lo colpivano sembrasse il rombo di un motoscafo; e sempre domande del tipo perché quella cosa fa così e così, quanto è alto quello, quanto è vecchio quell’altro, perché l’erba è verde, a che cosa assomiglia un elefante? A ventidue anni ne aveva cinque.

I genitori di Jeffty erano una coppia triste. Poiché ero amico di Jeffty, lasciavo che mi stesse ancora intorno in negozio, a volte lo portavo alla fiera o al minigolf o al cinema, e finivo per passare un po’ di tempo con loro. Non che me ne importasse molto, poiché erano così spaventosamente deprimenti. Ma d’altronde immagino che non ci si potesse aspettare molto di più da quei poveri diavoli. Essi avevano in casa una creatura aliena, un bambino che non era andato oltre i cinque anni in ventidue anni, che dava loro la delizia di quell’eterna, speciale condizione infantile, ma che gli negava, contemporaneamente, la gioia di veder crescere un bambino fino a diventare un adulto normale.

I cinque anni sono un meraviglioso momento della vita per un bambino… o meglio, possono esserlo, se il bambino è relativamente libero dalle mostruose bestialità in cui indulgono gli altri bambini. È il tempo in cui gli occhi sono spalancati e la mente non è ancora imprigionata in schemi, quando ancora non si è stati condizionati ad accettare ogni cosa come immutabile e senza speranza; un’epoca in cui le mani non riescono mai a fare abbastanza, la mente non può mai esser sazia, il mondo è infinito e colorato, e pieno di misteri. I cinque anni sono un momento speciale prima che essi prendano l’anima indagatrice, generosa, insaziabile del giovanissimo sognatore e la caccino in quelle tetre scatole che sono le aule scolastiche. Un’epoca anteriore all’imprigionamento di quelle mani esitanti che vogliono toccare ogni cosa, afferrare ogni cosa, capire ogni cosa, sopra la superficie di un banco. Un tempo precedente ammonimenti del tipo: «Comportati bene», e «Devi maturare», e «Non fare il bambino». È un’epoca in cui il bambino è ancora grazioso e sensibile ed è il tesoro di tutti. Un tempo di delizie, di meraviglia e d’innocenza.

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