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Frank Long: In una piccola città

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Frank Long In una piccola città

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Bobby Jackson è apparentemente un ragazzo normale, e altrettanto normali sembrano i coniugi Martin, nuovi arrivati, in una piccola città americana come ce ne sono a migliaia: Lakeview. Ma non lontano da Lakeview c’è la caverna detta di Gover, e ciò che succede là dentro potrà coinvolgere nello stesso tremendo pericolo non solo un maestro di scuola, una bibliotecaria, un barista e altri tipici personaggi della provincia americana, ma… tutta la Terra.

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Mi fermai sul pianerottolo, e risposi. — Ho incontrato Freddy Jason davanti alla biblioteca, e abbiamo bevuto un paio di gazzose.

— Gazzose? Tutto il pomeriggio? Ma, Bobby…

Entrai in camera mia, chiusi la porta, e dopo aver fatto un po’ di palleggio, andai a guardarmi nello specchio. Fui soddisfatto di quello che vidi. Ho il mento volitivo e non devo irrigidire la ma­scella perché lo si noti. Tutte le volte che mi guardo allo specchio ne prendo atto.

Poi mi sedetti sul letto a pensare. Il quadro stava diventando sempre più chiaro, e la verità mi balenò così viva che mi parve che tutta la stanza ne fosse illuminata.

“Ci stanno studiando” pensai. “Sono qui come osservatori. Stanno cercando di scoprire tutto quello che possono sulla razza umana. Studiano uomini e donne con spiccate caratteristiche in­dividuali, insomma i tipi speciali. Hanno intuito che gli uomini e le donne di questo tipo possiedono, in grado elevato, tutte le li­mitazioni, le risorse e le energie costruttive che hanno reso la vita dell’Uomo sulla Terra un paradosso e un mistero anche per l’uo­mo stesso”.

Studiarci sarebbe come… be’, come osservare una mosca della frutta che ha subito qualche mutamento pur restando sempre una mosca della frutta. Il fatto di per sé che questa particolare mosca sia un po’ diversa, fa di lei un ideale esemplare da laboratorio. Partendo dal presupposto che l’osservatore sia dotato di intelli­genza e intuito eccezionali, l’esame di questo insetto potrebbe ri­sultare molto più soddisfacente e fornire molte più informazioni sulle mosche in genere che non un qualunque altro esemplare preso a caso. Infine: dal particolare al generale.

Forse la verità mi sfuggiva e le mie erano supposizioni erronee. Comunque, mi persuasi che dovevo tornare dai Martin. Non ave­vo quasi più dubbi, ormai, ma mi occorreva una prova sicura. Il pericolo era gravissimo. Dovevo tornare presto da loro, altri­menti quello che era capitato a me poteva succedere anche a qualcun altro. Un uomo deve affrontare le sue responsabilità, e questo vale anche per un ragazzo. Per un ragazzo, in special mo­do, che si è imbattuto in cose strane che non può ignorare anche perché ci deve vivere accanto. Finché i Martin non venivano smascherati, tutta Lakeview era in pericolo, tutta l’America… e il mio pensiero si ferma qui, perché la paura è troppa. Non posso aspettare che una Lakeview in preda al panico prenda le misure necessarie. Se questo avviene, quando avviene, può essere trop­po tardi. E come si può mettere in allarme la città se io non ho prove per suffragare quella che senza dubbio può sembrare la più pazzesca e improbabile delle storie?

Di una cosa sola ero sicuro. Helen Martin aveva fatto qualcosa alla struttura fondamentale della mia mente, qualcosa che mi aveva fatto dubitare della mia identità e mi aveva convinto di es­sere un gatto. Per un terribile istante io ero diventato il gatto del­la signora Parker e, attraverso la pupilla dilatata dei suoi occhi, avevo fissato un ragazzo che non ero più io.

Gli antropologi dicono che l’uomo primitivo era davvero con­vinto di trovarsi contemporaneamente in più luoghi. Non posse­deva il senso del tempo quale lo concepiamo noi. L’uomo primiti­vo poteva pensare a se stesso come vivente nel medesimo istante sia passato sia presente. Forse non nel futuro, ma questo solo perché la sua capacità di fantasia non era sufficientemente svilup­pata per dargli la possibilità di pensare al futuro in termini con­creti. Spazio e tempo, tuttavia, non imponevano restrizioni alla sua mente, ed egli era sicuro di potersi recare ovunque contemporaneamente, così come noi siamo sicuri che i tramonti sono spesso rossi e che prima di morire conosceremo il dolore e la sof­ferenza.

Inoltre, e questo è l’aspetto più importante, l’uomo primitivo era fermamente convinto di poter essere nello stesso tempo uma­no e animale. Naturalmente non era possibile, e anche lui doveva esserne oscuramente consapevole. Ma la sua convinzione — o su­perstizione se preferite — era talmente forte in lui che la sua con­cezione della vita doveva essere davvero straordinaria.

Ma se l’identificarsi con ogni parte dell’universo fisico non era solo un tendere alla fantasia? Se invece si fosse trattato di una fa­coltà, una guida comune a tutto il genere umano, sopita e sepolta nell’uomo moderno dalla corazza d’acciaio della civiltà?

Supponete, per un solo minuto, che questa facoltà, per quanto sopita e nascosta, sepolta, ci sia vera e reale nella maggior parte di noi e che possa essere ridestata, scossa, eccitata, da un certo genere di sonda mentale. Ebbene, in questo caso, non c’è il mini­mo dubbio che lo spietato esame di Helen Martin abbia agito co­me sonda nel mio cervello risvegliando quella facoltà. Come ciò sia avvenuto lo ignoro, ma era avvenuto.

È difficile esaminare anche i piccoli animali da laboratorio e sottoporli ad alcuni test preliminari senza sconvolgerli un poco. I topolini bianchi, durante i test sperimentali, si riducono sovente a un ammasso di nervi tremanti. Anche i microrganismi sui vetri­ni si comportano — com’è stato provato — in modo strano, quasi avvertissero su di loro il vento gelido dell’ignoto.

Mi alzai e girai gli occhi intorno alla stanza. La maggior parte della gente l’avrebbe giudicata una normalissima camera da ra­gazzo, e del resto a me sarebbe spiaciuto se l’avessero giudicata in modo diverso. È la stanza di un ragazzo, di un quattordicenne. Con le cose giuste che piacciono ai quattordicenni e quindi piac­ciono anche a me perché sono e voglio essere un ragazzo di quat­tordici anni: anche se spesso mi sento diverso dai miei coetanei.

Appesa al muro c’è una mia fotografia, scattata quando avevo dodici anni, alla partenza della finale delle gare di corsa piana ju­nior; e un’altra, più piccola, dei miei genitori che remano sul la­go, scattata da me, sulla spiaggia, con una decrepita Hawkeye Brownie. Poi una libellula sudamericana grande quanto la mia mano, montata su cotone, sottovetro. Tre bandierine universitarie e una di una squadra di baseball. Sulla mensola, una gran coppa d’argento vinta al golf da papà e, su un tavolo vicino alla fine­stra, un guanto da baseball e una maschera a gabbia da “catcher”. Vicino all’armadio c’è anche una “pera” da pugilato.

Stavo appunto avviandomi per tirare qualche pugno alla “pe­ra”, quando mi tornarono in mente i Martin e mi sentii correre giù per la schiena un brivido gelido. Una premonizione, che mi invitava a far presto. Dovevo scoprire altre cose prima che fosse troppo tardi.

Non parlai molto a cena, mentre mamma serviva carne fredda e un’insalata di cetrioli e lattuga, insieme a un bicchiere di latte per me e a un cocktail Manhattan per papà. Prima del pasto sera­le, a papà piace bere una bevanda robusta, che gli tira su il mora­le per tutto il pasto. Diventa più calmo e gentile, il che per me va benone. Parla di cose che m’interessano, e non del suo lavoro quotidiano.

Caso mai v’interessi, non ho alcun complesso freudiano nei confronti di mio padre. Lo considero molto in gamba. È il tipo del professore universitario che coltiva grandi sogni e ha l’abilità di saper scegliere e ottenere il meglio dalla vita. Ma a causa del suo profondo senso di responsabilità sociale ha finito col dedicar­si agli affari bancari, il che, del resto, per mamma e per me va be­nissimo.

Non aprii bocca finché il pasto non fu quasi terminato, ma al­lora fui costretto a parlare. Papà fece esplodere una bomba. An­che lui si era vagamente interessato ai Martin, e, di punto in bianco, dichiarò:

— C’è qualcosa di strano in quel Martin.

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