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Frank Long: In una piccola città

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Frank Long In una piccola città

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Bobby Jackson è apparentemente un ragazzo normale, e altrettanto normali sembrano i coniugi Martin, nuovi arrivati, in una piccola città americana come ce ne sono a migliaia: Lakeview. Ma non lontano da Lakeview c’è la caverna detta di Gover, e ciò che succede là dentro potrà coinvolgere nello stesso tremendo pericolo non solo un maestro di scuola, una bibliotecaria, un barista e altri tipici personaggi della provincia americana, ma… tutta la Terra.

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Bobby Jackson

In una grande città come Lakeview gli avvenimenti non si colle­gano l’uno all’altro. Non c’è una trafila, nel pettegolezzo, che si possa seguire, risalendola, da vicino a vicino di casa. Si può co­minciare da qualsiasi parte, ma bisogna muoversi in fretta se si ha intenzione di raccogliere tutte le prove prima che le lacune della memoria ci facciano sfuggire qualche particolare importante dan­do l’impressione di non aver fatto tutto quel che avremmo potuto fare.

Per prima cosa feci qualche indagine all’ufficio postale, in tre o quattro negozi, alla biblioteca e all’Athletic Club. Dappertutto, insomma, dove il “figlio del banchiere” poteva contare di trovare un’accoglienza rispettosa da parte degli adulti. Lasciamo da par­te il Q.I. 150. In questi casi può essere d’impiccio, controbilan­ciato però, egregiamente, dall’essere “figlio del banchiere”.

A volte mi capitò di ascoltare commenti come: “È un ragazzino sveglio. Ascolta senza interrompere e ha una parola gentile per tutti. È intelligente, sì, ma non cerca mai di sbalordire la gen­te come si sentono in dovere di fare tanti bambini prodigio. Sì, è proprio a posto. Mi dicono che sia molto popolare a scuola. Un grande piccolo atleta, non uno di quei saputelli col naso sempre sui libri”.

Avrei avuto delle riserve da fare su quel tipo di complimenti, ma stetti sempre ben attento a non farlo capire.

Le mie indagini dettero dei risultati. Devo ammettere però, per dire la verità, che allora non sapevo nemmeno io quali infor­mazioni stessi cercando. In un certo senso, brancolando nel buio recitavo a soggetto.

Non sorridete. Questo è il modo migliore di recitare quando si è profondamente convinti di avere inciampato in qualcosa di grosso.

Feci fiasco completo in circa metà dei posti dove recitai la par­te del ragazzetto sveglio che cerca di sapere tutto il possibile sul conto di gente nuova del posto, come i Martin. Feci tutto il possi­bile perché la mia sembrasse solo curiosità infantile, e non c’è ra­gazzo al mondo che, ogni tanto, non manifesti un tipo di curiosità del genere. Volendola analizzare appare inspiegabile. Ma è ac­cettata per il semplice fatto che in ogni uomo si nasconde un bambino, e la curiosità pettegola costituisce una specie assai dif­fusa di passatempo.

In metà di quei posti, dunque, non feci progressi; in un altro quaranta per cento ottenni delle informazioni banali che non vale la pena di trascrivere. Ma alla fine riuscii a ricavare qualcosa. In­nanzitutto il vechio e loquace signor Donigan delle Ferramenta e Chincaglierie “Acme”. Sì, il signor Martin c’era stato due volte. Cos’aveva comprato? Niente di speciale. Un tubetto di colla attaccatutto e un martello di media grandezza. Ha parlato anche con altri? Sì, certo. Specialmente con Will Sanders. Sanders se ne stava curvo sul banco a rimirare con aria vogliosa un temperi­no laccato di rosso — uno di quelli che hanno un mucchio di lame quando Martin era entrato nel negozio e gli si era avvicinato con una parola di scusa, pregandolo di farsi un po’ in là perché voleva ammirare anche lui il temperino.

Ora, Will Sanders era un tipo. Tanto per dirne una, portava sempre camicie di flanella, e sembrava uno di quei proprietari di bazar di cinquant’anni fa. Se ne incontrano ancora, di tipi simili, nelle cittadine, specie in quelle del sud, ma in una città industria­le abbastanza sviluppata sono praticamente estinti come i dino­sauri. Non appartiene all’America televisiva dei nostri giorni. Sotto molti aspetti era un relitto, un simpatico vecchio squinter­nato. Viveva tutto solo in una baracca da eremita alla periferia e, per tirare a campare, allevava galline livornesi. Che ci crediate o no, suo nonno aveva conosciuto Custer e per un pelo non era sta­to a Little Big Horn.

Martin e Sanders avevano parlato per una decina di minuti e poi se n’erano andati insieme, continuando a parlare come vecchi commilitoni a un raduno di veterani.

Altro? No… Niente di speciale, ma lo trascrissi sul mio libricino nero perché mi sembrava importante. Ecco quello che sco­prii a proposito di Martin in altri cinque posti. Gli piaceva par­lare con la gente… con qualsiasi tipo di persona. Ma ogni indi­geno a cui rivolse la parola era un tipo a sé, con delle caratteri­stiche che lo facevano spiccare sugli altri. Li elencherò in fretta. Fred Halstrom, meccanico di garage fino alla punta dei capelli: il tipo che guarda dentro al motore delle macchine con aria ra­pita, quasi che nelle sue vene scorresse fuoco ardente di benzina succhiata da tutte le auto che avesse riparato. I motori erano tutto per lui.

C’era Samuel Thompson, professore di ginnastica della scuola superiore di Lakeview: tipico americano idolo dei giovani in ma­glione e calzoni da ginnastica che sperano di entrare a far parte di qualche Lega Universitaria e che sono sicuri di riuscire a laurear­si a Princeton o a Yale. Sapeva giocare a polo, nuotare, battere un record di pista e segnare un goal meglio di chiunque altro ab­bia mai conosciuto.

Seguiva, sulla lista, Clifford Andrews. Clifford era un topo di biblioteca, quel tipo di persona che impara, si può dire, per pro­fessione, non tanto per ampliare le sue cognizioni, quanto perché imparare lo eccita. Direte che come vocazione non è certo molto eccitante, ma in fondo anche i cirripedi e i tarli hanno diritto ai loro momenti di estasi.

E poi Theodore Murch, impiegato nella banca di mio padre. Ovvero la versione cittadina dell’uomo vestito di grigio delle me­tropoli. No, cancellate questa limitazione geografica. Incontran­dolo alla stazione della metropolitana di Wall Street, a New York, lo si sarebbe preso per un giovane impiegato di un’agenzia di cambio.

Per finire, gli ultimi due: Jack Seaton e Stanley Webb. Cittadi­ni medi… medi in tutto… fino all’eccesso. La loro normalità era di quel tipo che salta agli occhi e fa pensare a quello che dice Orwell nella Fattoria degli Animali : “Tutti gli esseri sono uguali, ma qualcuno è più uguale degli altri”.

Tornai a casa alle cinque del pomeriggio e salii direttamente in camera mia. Mamma mi chiamò dal soggiorno, e poiché non ri­sposi alzò la voce di un paio di ottave.

— Sei tu, Bobby? Dove sei stato tutto il pomeriggio?

È un tipo d’interrogatorio, questo, che può essere scocciante qualora si facciano delle concessioni a talune limitazioni fonda­mentali. Ma mia madre ha un buon carattere e mi vergognai di me quasi immediatamente.

Mi fermai sul pianerottolo, e risposi. — Ho incontrato Freddy Jason davanti alla biblioteca, e abbiamo bevuto un paio di gazzose.

— Gazzose? Tutto il pomeriggio? Ma, Bobby…

Entrai in camera mia, chiusi la porta, e dopo aver fatto un po’ di palleggio, andai a guardarmi nello specchio. Fui soddisfatto di quello che vidi. Ho il mento volitivo e non devo irrigidire la ma­scella perché lo si noti. Tutte le volte che mi guardo allo specchio ne prendo atto.

Poi mi sedetti sul letto a pensare. Il quadro stava diventando sempre più chiaro, e la verità mi balenò così viva che mi parve che tutta la stanza ne fosse illuminata.

“Ci stanno studiando” pensai. “Sono qui come osservatori. Stanno cercando di scoprire tutto quello che possono sulla razza umana. Studiano uomini e donne con spiccate caratteristiche in­dividuali, insomma i tipi speciali. Hanno intuito che gli uomini e le donne di questo tipo possiedono, in grado elevato, tutte le li­mitazioni, le risorse e le energie costruttive che hanno reso la vita dell’Uomo sulla Terra un paradosso e un mistero anche per l’uo­mo stesso”.

Studiarci sarebbe come… be’, come osservare una mosca della frutta che ha subito qualche mutamento pur restando sempre una mosca della frutta. Il fatto di per sé che questa particolare mosca sia un po’ diversa, fa di lei un ideale esemplare da laboratorio. Partendo dal presupposto che l’osservatore sia dotato di intelli­genza e intuito eccezionali, l’esame di questo insetto potrebbe ri­sultare molto più soddisfacente e fornire molte più informazioni sulle mosche in genere che non un qualunque altro esemplare preso a caso. Infine: dal particolare al generale.

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