Frank Long - In una piccola città

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In una piccola città: краткое содержание, описание и аннотация

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Bobby Jackson è apparentemente un ragazzo normale, e altrettanto normali sembrano i coniugi Martin, nuovi arrivati, in una piccola città americana come ce ne sono a migliaia: Lakeview. Ma non lontano da Lakeview c’è la caverna detta di Gover, e ciò che succede là dentro potrà coinvolgere nello stesso tremendo pericolo non solo un maestro di scuola, una bibliotecaria, un barista e altri tipici personaggi della provincia americana, ma… tutta la Terra.

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— Dimentichi che ho scorso frettolosamente l’articolo — disse papà. — Se tua madre non fosse così impaziente d’incominciare i lavori di casa, potrei leggere comodamente il giornale e scindere le notizie importanti da quelle che non lo sono. Non serve a nien­te fare una cosa, sia pure leggere il giornale, se non la si fa seria­mente e a fondo. — A questo punto papà mi sorprese con un sor­riso: — Così parlavano i padri ai figli nell’epoca vittoriana: “Guarda come la piccola laboriosa ape migliora via via che tra­scorre ogni ora”. Purtroppo questo ridicolo modo di pontificare non è ancora completamente estinto. I padri sono sempre stati e saranno sempre persone piene di pregiudizi, e non solo agli occhi dei figli, ma anche ai loro stessi occhi. Essere padri fa dimentica­re, a volte, che nella testa di un ragazzo possono esserci idee vali­de e originali che dovrebbero attirare la nostra attenzione.

Non so se io sia mai riuscito a stupire papà come lui talvolta stupisce me. “Tale il padre, tale il figlio” contiene una grande ve­rità. I geni sono i geni e non ci si può far niente. Se papà fosse stato una persona un po’ fuori dal comune che tipo di individuo sarei stato io?

— Quando quel giovanotto ha soffiato contro lo sceriffo, che cosa è successo? — chiesi. — Anderson deve essersi preso un bel colpo.

— Be’… ebbe l’impressione di trovarsi davanti a uno squili­brato, e lo afferrò per un braccio cercando di calmarlo con le pa­role del caso.

“Adesso ci siamo” pensai.

— E la sua impressione era giusta? — chiesi, con un senso di nascente timore. Non era facile per me dimenticare la sensazione che avevo provato in casa Oakham, quando avevo visto il gatto della signora Parker avvicinarsi furtivo e tutt’a un tratto m’ero ri­trovato a guardare nella stanza attraverso i suoi occhi, tanto vici­ni al pavimento, e avevo incominciato a provare le sensazioni di un gatto.

Talvolta capita di aspettare con impazienza parole che già si sa quali saranno e di temere tuttavia il momento in cui si abbatte­ranno contro la nostra mente come un’onda di marea, lasciando­ci senza neppure una fragile zattera a cui aggrapparsi.

— Alludi all’impressione che quel Bellamy fosse uno squili­brato? — disse papà. — Certo. Anderson aveva ragione di pen­sarlo. Continuava a soffiare, e poi lo prese per il braccio arti­gliandogli il polso. Anderson si arrotolò la manica e mi fece ve­dere i segni quando mi raccontò l’episodio. Si comportava pro­prio come un animale infuriato.

Un animale infuriato! Che cosa sarei diventato io, se Helen Martin non…

La stanza tornò a vorticare e io non riuscii a sentire quel che papà stava dicendo. Non ero pronto a ricevere la spiegazione che temevo, e provai un gran sollievo quando lo udii pronunciare pa­role che mi rassicurarono un po’.

— Lo interrogarono più tardi, dopo averlo chiuso in cella, quando ormai si era calmato. Rispose a tutte le domande di Anderson. Ha venticinque anni e vive in Bretan Street con sua ma­dre, che è vedova. C’era un cronista del News in carcere, e Anderson era talmente sconvolto che non si rese conto di parlare troppo. — Papà tacque per un istante, e quando proseguì aveva un’espressione turbata. — Hai mai visto un gatto camminare, Bobby? — mi chiese. — Dico… camminare eretto, come un uo­mo, e agitare freneticamente le zampe anteriori? Io no di certo, e quel che Anderson credette di aver visto poteva anche essere una cosa diversa. Mi disse che il gatto sbucò all’improvviso da dietro una macchina parcheggiata lungo il viale, e avanzò verso di lui agitando la testa. Incespicò una volta, e sembrava che avesse una gran fretta di raggiungere lo sceriffo prima che Bellamy gli cavas­se gli occhi.

— Come puoi essere sicuro che i movimenti del gatto fossero umani? — dissi io. — C’è una bella differenza fra le dimensioni di un gatto e quelle di un uomo, e mi sembra difficile giudicare. Forse il gatto era spaventato e correva come se avesse preso una scossa elettrica. Capita, a volte, che i gatti si comportino così sen­za motivo. Sono bestie strane.

— Lo so — disse papà. — La tua è un’osservazione acuta, Bob­by. Forse anche Anderson la pensò allo stesso modo, sulle prime. Ma poi il gatto gli afferrò le mani con le zampe anteriori, cercando di trascinarlo. Tieni presente che ti sto raccontando quello che mi ha detto Anderson. Gli strinse forte il polso, non tanto però da graffiarlo, e continuava a tirare. Aveva le orecchie appiattite ed emetteva dei suoni apparentemente umani. Lo sceriffo ebbe l’im­pressione che volesse dirgli qualcosa… Dio solo sa cosa.

— Forse di lasciar stare Bellamy, perché non c’è niente di più pericoloso di un’interferenza esterna quando sta succedendo qualcosa di soprannaturale — ribattei io, per subito pentirmene.

Papà mi guardò con aria incredula: l’ultima cosa che si sarebbe aspettato era una mia presa di posizione in favore di Anderson. — Parli come se credessi sul serio alla storia dello sceriffo! — esclamò.

Questo era esattamente ciò che volevo fargli pensare. Per evi­tare che si avvicinasse troppo alla verità, mi affrettai a dire: — Poco fa dicevi alla mamma che secondo te Anderson non menti­va. Per azzuffarsi con Bellamy e pensare che il gatto volesse farlo smettere, lo sceriffo doveva essere piuttosto sottosopra, e tutta la scena deve essergli parsa spaventosa e soprannaturale.

— Hai ragione — disse papà. — Però, su questo punto era piuttosto vago, forse perché quel che accadde poi fu ancora più incredibile. Ricorda: io non faccio che ripetere le sue parole. Per un momento, perdette completamente la testa e tirò un calcio al gatto facendolo volare attraverso tutto il marciapiede. Era spa­ventato, come lo sarebbe stato chiunque al suo posto. La bestiola gli si era aggrappata al polso e lui pensava che fosse impazzita e quindi pericolosa, specie in quel momento, poi, in cui doveva te­nere a bada anche un uomo fuori di sé… Il calcio sistemò il gatto che, riavutosi, scappò come un fulmine e si nascose in un garage vicino. Non appena fu scomparso, Bellamy si calmò completa­mente. Si mise a fissare lo sceriffo con aria stupefatta come se si fosse appena svegliato da un incubo. Con una smorfia di dolore si appoggiò alla vetrina, coprendosi la faccia con le mani. Ander­son dice che tremava tutto e borbottava delle parole strane: “Fuori dal mio corpo” diceva. “Oh Dio… come?”

Io commisi l’errore di prendere un cucchiaino e di rimetterlo a posto, ma per fortuna papà non si accorse che mi tremava la mano.

— Sei sicuro che disse proprio così, papà? Non aggiunse altro?

— No, se non più tardi quando Anderson pensò di aver sba­gliato arrestandolo, perché non ci si guadagnava niente a tenerlo chiuso in una cella.

Dall’aria accigliata di papà, capii che lo sceriffo era rimasto po­co soddisfatto di quello che Bellamy gli aveva detto.

Ma questo non diminuì la mia curiosità. — Chissà che spiega­zione complicata avrà dovuto tirar fuori! — esclamai. — Era lo­gica?

— Rispose a tutte le domande di Anderson — disse papà — ma non spiegò niente.

— Com’è possibile?

— Grazie all’alibi più antico e più valido che si possa trovare. Disse di non ricordare d’essere venuto alle mani con lo sceriffo. Non ricordava nemmeno il gatto, né perché si fosse fermato a guardare la vetrina. Una cosa inspiegabile… e una completa per­dita della memoria. — A questo punto papà scosse la testa. — Un’amnesia che duri settimane o mesi è difficile da simulare. Ma quando deve coprire un periodo di un’ora o poco più, immedia­tamente prima dello shock, la si può simulare in modo perfetto, pur di stare attenti a rispondere con prudenza alle domande. Po­vero sceriffo Anderson! Dovette vedersela anche con la madre del giovanotto, che arrivò come una furia, pronta, se necessario, a fargli ottenere la libertà provvisoria, e decisa comunque a far uscire immediatamente il figlio. La madre disse che crisi simili si erano già verificate due volte e che il minimo che Anderson avrebbe dovuto fare sarebbe stato di trattare Bellamy con genti­lezza e rispetto e di accompagnarlo a casa. Un neurologo le ave­va spiegato che la cosa non era grave; che forse il ragazzo aveva studiato troppo. Fra qualche mese si laureerà in medicina e se un ignorante di sceriffo non sapeva il suo dovere e si comportava co­me uno stupido — uno stupido oltretutto insensibile, in quella cir­costanza specifica — tutto il mondo accademico sarebbe insorto per dargli quel che meritava.

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