Frank Long - In una piccola città

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In una piccola città: краткое содержание, описание и аннотация

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Bobby Jackson è apparentemente un ragazzo normale, e altrettanto normali sembrano i coniugi Martin, nuovi arrivati, in una piccola città americana come ce ne sono a migliaia: Lakeview. Ma non lontano da Lakeview c’è la caverna detta di Gover, e ciò che succede là dentro potrà coinvolgere nello stesso tremendo pericolo non solo un maestro di scuola, una bibliotecaria, un barista e altri tipici personaggi della provincia americana, ma… tutta la Terra.

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Mamma uscì dalla cucina e gli posò davanti un bricco di panna. — Roger, non hai molto tempo — disse.

Io sedetti davanti al piatto dei cereali, irritato perché anch’io, come mio padre, ero schiavo del tempo. Cosa sarebbe successo se fossi arrivato tardi a scuola? Il signor Dyson mi avrebbe inflitto un compito per castigo? Poco probabile. Mi avrebbe spiegato a tu per tu che l’essere figlio di un banchiere e il possedere un Q.I. molto elevato mi conferivano certi privilegi, ma che io tutta­via gli creavo un problema, perché il ritardare, da parte di un “di­rigente”, sia pure della mia età, non era consono alla posizione.

“Sai com’è, Bobby. Se facessi un’eccezione per te, finirei col trovarmi nei pasticci”.

Non si creano problemi alle persone che si apprezzano e così ecco che finivo, daccapo, vittima della puntualità, dell’orario.

Io dovevo essere a scuola alle nove. Papà era più fortunato perché poteva prendere l’autobus alle nove e mezzo, se voleva arrivare in banca puntuale alle dieci, invece di sciropparsi una passeggiata di trentacinque isolati. Mamma, da parte sua, non badava alle differenze e spronava tutt’e due ad affrettarci…

A un tratto papà mise da parte il giornale e guardò la mamma e poi me come se avesse letto qualcosa che gli pareva incredibile.

Mamma era stupita. Non capita spesso che papà si emozioni per qualche notizia, e quando succede vuol dire che è scoppiata una guerra da qualche parte, o che un direttore di banca, deside­roso di mostrarsi compiacente, ha accettato un assegno di due milioni di dollari che poi risulta essere rubato.

— Anderson mi diceva ieri che temeva di vedere stampata la notizia — disse papà. — Io ero sicuro che non la stampassero. In­vece aveva ragione lui. Purtroppo un funzionario di polizia non può evitare che un giornalista ficcanaso gli faccia fare la figura dello scemo.

— Cos’è successo, papà? — domandai.

— Ieri, in Clarke Street, lo sceriffo Anderson ha fermato un giovanotto che era persuaso di essere diventato un gatto — spie­gò papà.

Mi sembrò che la stanza si mettesse a vorticare, e rimasi senza fiato.

— Cosa c’è di tanto strano? — intervenne la mamma. — Se si tratta di un pazzo…

— È la versione dello sceriffo che è pazzesca — interruppe papà. — E Anderson invece non è certo pazzo. Lo conosco da vent’anni e non posso assolutamente credere che menta a proposito di una cosa che è convinto di avere visto. Ci deve essere una spie­gazione…

— Che cos’ha visto, papà? — riuscii a dire.

— Un gatto… sia pure per un istante… che sembrava convinto di essere un uomo — rispose papà. — Tutta quanta la faccenda…

— Dagli il giornale, così può leggere da solo la notizia — disse la mamma. — Se ne fai un romanzo sceneggiato, arriverà tardi a scuola.

Allora papà perse la pazienza. — Quando Bobby mi fa una do­manda seria preferisco rispondergli io. Ti spiace?

— Certo che mi spiace. Ma se vuoi perdere l’autobus, conti­nua pure.

— Posso permettermi di perdere l’autobus due o tre volte alla settimana. Una passeggiata di due miglia mi fa bene. Vorrei che la smettessi di spingermi fuori di casa!

Mamma strinse le labbra e tornò in cucina senza aggiungere al­tro. In qualsiasi altro momento io sarei stato dalla parte di papà. Ma guardavo le frittelle dolci che lei gli aveva preparato solo per fargli piacere e non potei fare a meno di pensare che avrebbe po­tuto rispondere più gentilmente. Tuttavia ero ancora così scosso per la notizia che mi aveva riferito, che ci pensai solo per un mo­mento.

Volevo che continuasse a parlare, perché quel che si riesce a ri­cavare da un giornale è solo una serie di fatti visti attraverso gli occhi del cronista. Qualche volta non sono riferiti esattamente, o solo in modo troppo scarno.

Papà possiede il raro dono di interpretare i fatti con molta fan­tasia. La sua teoria è quella di non lasciarli congelare finché di­ventano così secchi e friabili da frantumarsi in mucchietti di bri­ciole. Il fatto solo di aver parlato personalmente con lo sceriffo Anderson, e quindi ascoltato la sua versione dell’accaduto, m’induceva a credere che se avessi insistito, con le domande giuste — e aggiungendo alla sua la mia interpretazione — saremmo giunti a una conclusione positiva.

— Perché è stato arrestato quel giovane, papà? — chiesi. — Dava fastidio?

— Prima di tutto — rispose papà, guardando il giornale come se si fosse pentito di non aver chiesto alla mamma un paio di for­bici per ritagliare l’articolo e farlo poi leggere a Graham e Creighton, in banca — si comportava in modo molto strano. Si era fermato davanti alla vetrina di un negozio e fissava la sua im­magine nel vetro. Quello che vide, chissà perché, dovette spa­ventarlo, in quanto retrocedette tutto curvo. Per caso, passava di lì lo sceriffo, e in quel punto non c’erano altre persone.

— E allora, papà?

— Chi ha giurato di servire la Legge ha delle particolari re­sponsabilità. Tu, o io, o qualunque altro privato cittadino veden­do un giovane — a proposito, si chiama Charles Bellamy — che si comportava a quel modo, non vi avremmo forse badato. Ma lo sceriffo no. Si avvicinò al signor Bellamy per chiedergli cosa avesse. E lui, invece di rispondergli, arretrò verso la vetrina, sof­fiando contro lo sceriffo.

— Vuoi dire che soffiava… come fanno i gatti?

Papà mi guardò stupito a quella domanda. — Be’, pare di sì. Ma tutti possono soffiare a quel modo.

Naturalmente aveva ragione. È facile come fischiare. Basta soffiar forte tra i denti e contro il palato. Ma è una forma di lin­guaggio espressivo, a suo modo, e per produrlo ci vuole il con­corso del cervello. In altre parole, non si può soffiare o ridere o piangere senza che il cervello non impartisca istruzioni al centro del linguaggio. Ma basta questo a provare che quel giovane era diventato un gatto? No. Poteva aver soffiato per disprezzo, per sfida… ma io sapevo che doveva esserci sotto dell’altro, altri­menti il News-Chronicle non avrebbe pubblicato la storia.

Papà dovette giudicare sciocca la mia domanda — e invece non lo era affatto — perché capii che stava perdendo la pazienza.

— Bobby — disse — credo che tua madre avesse ragione. Qua, tieni il giornale, e leggi.

Mi passò la pagina, ma io gli afferrai la mano e dissi: — Ti guardavo mentre leggevi, e ho notato che ti ha colpito, nonostan­te avessi parlato con Anderson. Se la leggo da solo, può anche darsi il caso che mi sfugga proprio quella cosa che ti ha colpito particolarmente per la sua stranezza.

Papà mi guardò scuotendo la testa: — Sei uno strano ragazzo, Bobby. Qualche volta stento a credere di essere tuo padre. Quando avevi sei o sette anni, non ho mai capito perché avevi l’abitudine di darmi un libro da leggere, per esempio i Racconti Narrati Due Volte di Hawthorne, perché poi potessi raccontarteli con le mie parole, la sera, prima di addormentarti. In questo mo­do, però, sono sicuro che perdevi il meglio del libro.

— Mi piaceva quello che ci mettevi di tuo, papà — dissi. — Se­condo me, Hawthorne non aveva modo di conoscere le reazioni di una mente del ventesimo secolo alle leggende antiche. Non parlo della mente di un bambino di sei anni, ma di quella di un adulto dotato di fantasia. Tu vedevi le cose che a me potevano sfuggire, e che Hawthorne non poteva aver preso in considera­zione. Com’è possibile che uno scrittore nato nel 1804 potesse compiere un così grande balzo avanti nel tempo?

— D’accordo, d’accordo — cedette papà. — Hai detto abba­stanza. Quando parli così mi fai un po’ paura. Sempre.

Sapevo con esattezza quel che pensava: “Forse ho procreato un essere eccezionale. Un ragazzo che avrebbe potuto essere fi­glio del Mago Merlino e avere Einstein come nonno”.

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