Sedette sulla poltroncina della scrivania. Aveva lavorato a lungo seduto su quella poltroncina e ora tutto quel lavoro non aveva più alcun significato. Troppe cose avevano cessato di avere significato. Progetti e idee, dove trascorrere la luna di miele, il modo in cui desiderava vivere, in quale casa, tutto. La Florida e la California e New York erano parole senza senso, come ieri e domani. Tutto, era scomparso, i tempi e i luoghi, e non restava più nulla, eccetto Carol. E forse nemmeno lei, Forse se n’era andata con sua zia per una piccola gita in campagna e, se non si trovava in Middletown quando quella cosa terribile era accaduta, anch’essa, allora, se n’era andata, per sempre... sempre...
Afferrò il ricevitore con ambo le mani e ripeté il numero più volte. La centralinista fu molto paziente, con lui. Tutti telefonavano a Middletown, tutti si chiamavano, e al di sopra di quei frammenti di conversazioni confuse, Kenniston udiva rimbombare nelle sue orecchie le pulsazioni del suo cuore, e pensava che non aveva alcun diritto di desiderare che Carol fosse ancora là, in casa sua. Avrebbe dovuto anzi pregare il Cielo che fosse andata in qualche altro posto, perché non poteva desiderare che una persona amata fosse costretta a fronteggiare quella vita terribile, che li attendeva. E che vita li attendeva? Chi poteva immaginarselo, in mezzo a tutti quegli orrori indistinti che avrebbero potuto prendere forma?
«Ken?» disse una voce, nel suo orecchio. «Ken, sei tu? Pronto! »
«Carol!» disse Kenniston. Tutta la stanza scomparve, come in una nebbia, ai suoi occhi, e non vi fu più che quella voce.
«Ken! È tanto tempo che cerco di chiamarti. Che cosa è accaduto? La città è tutta sottosopra. Ho visto un lampo terribile nel cielo, ma non vi è stato alcun temporale, e poi, quella scossa... E tu, come stai?»
«Sì, sì, sto benissimo...» Non era affatto spaventata, Carol, almeno non ancora. Era ansiosa, preoccupata, ma non spaventata. Un lampo e una scossa. Allarmante sì, ma non terrificante, non certo la fine del mondo... Kenniston si irrigidì, facendo forza su se stesso, e disse: «Non lo so ancora, che cosa sia stato.»
«Ma puoi saperlo? Qualcuno dovrebbe saperlo.» Non era al corrente, naturalmente, che Kenniston lavorava in un centro atomico. A lui non era stato consentito di dirlo a nessuno, nemmeno alla sua fidanzata e, per lei, Ken non era altro che un semplice tecnico di un laboratorio industriale, vagamente occupato in prove di materiali e cose del genere. La ragazza non aveva mai dimostrato molta curiosità per il suo lavoro, e lui gliene era stato grato, perché ciò gli aveva risparmiato la necessità di mentirle. Ora le era anche più riconoscente, perché Carol non poteva crederlo capace di darle informazioni sull’accaduto. In quel modo, avrebbe potuto risparmiarle la verità ancora per un poco, e rimettersi, lui per primo, dal colpo ricevuto.
«Farò del mio meglio» la rassicurò. «Ma finché non saremo sicuri di che si tratta, desidero che tu e tua zia rimaniate in casa, lontano dalla strada. Non si può sapere come si comporterà la gente, se è presa dal panico. Me lo prometti? Sì... sì. Verrò da te non appena mi sarà possibile.»
Kenniston riappese il ricevitore e, non appena interrotto il contatto con Carol, perse nuovamente il contatto con la realtà. Si guardò attorno, e l’ufficio gli parve d’improvviso come un ambiente irreale, perché non aveva più significato per lui. Avrebbe voluto andarsene al più presto, eppure, quando si fu alzato, rimase per un poco con le mani appoggiate alla scrivania, mentre le parole di Hubble gli martellavano in testa. Ricordava l’immagine del sole e delle stelle, il triste e inconsueto aspetto della Terra. Si sforzava di convincersi che era tutto impossibile, eppure i fatti non si potevano negare. La lunga sequenza del tempo e poi, d’un tratto, una forza dirompente... Desiderava disperatamente di fuggire. Riscuotendosi, uscì nel corridoio e si diresse all’ufficio di Hubble.
Erano tutti lì, i dodici uomini del personale e Johnson. Johnson si era rifugiato in un angolo. Lui aveva visto ciò che era accaduto laggiù, ai limiti della città, mentre gli altri non si rendevano ancora conto. Cercava di capire l’accaduto e la spiegazione che di esso aveva appena udita. Non era una cosa piacevole vederlo ripiegato in quello sforzo mentale. Kenniston guardò gli altri. Aveva lavorato a stretto contatto con tutti loro. Credeva di conoscerli molto bene, avendo vissuto con loro i successi e gli insuccessi del lavoro comune. Capiva ora, invece, che erano tutti estranei, sia verso di lui, sia tra di loro. Erano soli, ognuno in balia della propria paura.
«Anche se questo fosse vero» stava dicendo, in tono quasi truce, il vecchio Beitz «non potete però affermare esattamente quanto tempo sia trascorso. E soprattutto, basandovi unicamente sulle stelle.»
«Non sono un astronomo» ribatté Hubble «ma chiunque può calcolarlo dai diagrammi, in base al moto delle stelle e ai mutamenti delle costellazioni. Non esattamente, certo, ma con quell’approssimazione che può, almeno per ora, interessarci.»
«Ma se la continuità del tempo fosse stata realmente spezzata, se questa città avesse realmente fatto un balzo di milioni di anni...» La voce di Beitz si perdette in un mormorio indistinto. Si morse le labbra, cosciente della inutilità di quanto stava dicendo, e rimase, come tutti gli altri, a guardare Hubble con una espressione cupa.
«Non crederete certamente a tutto questo, finché non avrete visto coi vostri occhi» concluse Hubble, scuotendo il capo. «Non vi biasimo affatto. Ma per il momento, dovrete accettare la mia spiegazione come una possibile ipotesi.»
Morrow si schiarì la gola.
«E che direte alla gente... agli abitanti della città? Avete intenzione di dir loro la verità?» domandò.
«Almeno una parte della verità dovranno conoscerla» rispose Hubble. «La temperatura si farà più fredda, molto più fredda, specialmente durante la notte, e dovranno essere preparati ad affrontare questa evenienza. Ma dobbiamo evitare le manifestazioni di panico. Stanno venendo da me il sindaco e il capo della polizia, e decideremo la cosa con loro.»
«E quei due ne sono già a conoscenza?» domandò Kenniston.
«No» rispose Hubble.
Johnson si mosse d’improvviso. Si avvicinò a Hubble: «Sarà al sicuro, mio figlio?»
«Vostro figlio?» domandò Hubble, guardandolo interdetto.
«Sì. Se n’è andato stamattina di buon’ora alla fattoria di Martisen, per farsi preparare un aratro. Quella fattoria si trova a due miglia fuori dalla città, verso nord. Che ne è stato di lui, signor Hubble... è al sicuro?»
Quello era il segreto tormento che non aveva ancora espresso a parole.
«Credo che non abbiate da preoccuparvi per lui, signor Johnson» rispose Hubble con pietosa menzogna.
Johnson fece col capo un cenno affermativo, ma appariva sempre preoccupato.
«Grazie, signor Hubble» disse. «Sarà meglio che torni a casa, ora. Ho lasciato mia moglie in una crisi di disperazione.»
Un paio di minuti dopo la sua partenza, Kenniston udì all’esterno la sirena di un’auto, che venne a fermarsi davanti all’edificio.
«Dovrebbe essere il sindaco» disse Hubble.
Un ben debole appoggio, in una circostanza come questa, pensò Kenniston. Non che il sindaco fosse un cattivo uomo. Non era più presuntuoso, inefficiente o venale di qualsiasi altro sindaco di provincia. Gli piacevano i bambini e l’oratoria, si preoccupava dei colori della sua cravatta e si diceva che fosse, comunque, un buon marito e un buon padre. Ma Kenniston non poteva certo immaginarsi Bertram Garris come capo del suo popolo. Questi suoi pensieri non mutarono affatto quando Garris entrò con le sue guance rosee di uomo ben pasciuto, con quel suo viso di piccolo uomo soddisfatto della sua piccola carriera nella sua piccola città. In quel momento, appariva considerevolmente turbato e perplesso, ma solo superficialmente, anzi, forse più interessato che spaventato dalla prospettiva di essere al centro di un avvenimento importante.
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