L’aria si era fatta più fredda. I raggi rossi del sole non avevano alcun calore, e Kenniston, quando afferrò la ringhiera della scala per cominciare a salire sulla torre, sentì che le sbarre di ferro erano fredde come ghiaccio. Seguì Hubble su per la scala, tenendo gli occhi fissi sulle scarpe del suo superiore. Fu una lunga salita. Dovettero fermarsi una volta, per riposare. Il vento soffiava sempre più forte, a mano a mano che salivano. Pareva a Kenniston che quel vento umido avesse un odore di muffa; come se quell’aria soffiasse da profonde tombe scavate nella roccia.
Giunsero infine alla piattaforma, riparata da una ringhiera che correva tutto attorno al grosso serbatoio dell’acqua. Kenniston guardò, in basso, la città. Vide gruppi di persone che si raccoglievano agli angoli delle strade. Vide automobili, alcune delle quali si muovevano lentamente, ma le più erano ferme e ingombravano le strade. Regnava su tutto un silenzio pesante.
Hubble diede uno sguardo rapido alla città. Middletown era tutta sotto di loro, coi suoi fabbricati intatti nel punto dove si erano sempre trovati, con la statua bronzea di una sentinella, a ricordo dei caduti nella Guerra Civile, proprio al centro della piazza, col fumo che saliva lentamente dalle ciminiere degli stabilimenti. Poi Hubble guardò verso l’esterno della città. Non parlò, ma rimase immobile, con gli occhi fissi. Anche Kenniston volse istintivamente lo sguardo in quella direzione.
Guardò a lungo, prima di cominciare a rendersi conto della realtà. Le retine dei suoi occhi continuavano a registrare quella immagine, ma il cervello si rifiutava di dare un senso, un significato qualsiasi a quella incredibile visione. Impossibile... impossibile... No! No! Doveva essere la polvere, o la rifrazione, o una illusione creata da quella nebbiosa luce solare, qualsiasi cosa, ma non la realtà. Non ci poteva essere, per tutte le leggi note dal tempo della Creazione, una realtà come quella!
Tutto il paesaggio, attorno a Middletown, era scomparso. I campi, i campi verdi e lisci del Middle West, il fiume, i torrenti, le vecchie fattorie sparse qua e là, tutto era scomparso. Quel paesaggio era completamente diverso, estraneo, e si stendeva attorno alla città come un paese sconosciuto.
Pianure tristi e vuote, fatte di terra color giallo ocra, battute dal vento, si perdevano in una catena di colline frastagliate, che non erano mai esistite prima. Il vento soffiava su quel mondo nudo e senza vita, muoveva le zolle e sollevava nubi di polvere giallognola. Il sole sovrastava tutto ciò come un grande occhio opaco, dalle ciglia di fuoco. Le stelle scintillanti pendevano solenni nel cielo, e tutto, la Terra, le stelle, il sole, aveva un aspetto di morte. Tutto era avvolto da un silenzio di attesa, in una dimensione che non aveva più nulla di nuovo.
Kenniston strinse spasmodicamente le sbarre di ferro della ringhiera, con la sensazione spaventosa che tutta la realtà gli crollasse attorno, e cercò freneticamente una spiegazione, una spiegazione razionale qualsiasi di quell’impossibile scenario.
«Ma, allora, la bomba... la bomba ha in qualche modo distrutto tutto il paesaggio attorno a noi, invece di distruggere Middletown?»
«Potrebbe mai una bomba far scomparire un fiume, e far sorgere quelle colline, e trasformare i campi, in quella terra arida e gialla?» disse Hubble. «Potrebbe mai, una bomba, fare tutto ciò?»
«Ma, per l’amor del Cielo, allora... che cosa...»
«Quella bomba ci ha colpito, Kenniston. È scoppiata proprio su Middletown, e ha fatto qualche cosa...» Hubble si interruppe, balbettando, poi proseguì: «Nessuno sapeva, in realtà, che cosa potesse fare una bomba superatomica. Esistevano teorie logiche, previsioni sui suoi effetti, ma nessuno sapeva nulla in realtà, eccetto il fatto che una forza immane sarebbe stata improvvisamente scatenata. Ebbene, quella forza è stata scatenata sopra Middletown. Ed è stata una forza violentissima. Tanto violenta che...»
Hubble si arrestò nuovamente, come se non avesse abbastanza coraggio per esprimere la certezza che si era ormai formata in lui. Fece un gesto vago verso il cielo annebbiato.
«Quello è il nostro sole» disse «proprio il nostro sole... ma è vecchio ora, molto vecchio. E quella Terra che vedi laggiù è vecchia anch’essa, nuda, sterile, corrosa e morente. E le stelle... Hai guardato le stelle, Ken, ma non le hai vedute. Sono diverse. Le costellazioni sono scompaginate dal moto delle stelle, e questo è unicamente dovuto all’opera di milioni di anni.»
«Milioni di anni?» bisbigliò Kenniston. «Ma, allora, tu credi che la bomba...» Tacque di colpo, e capì in quel momento che cosa aveva dovuto provare Hubble quando aveva compreso la realtà. Come si poteva dire una cosa che nessuno aveva detto mai, prima?
«Sì, la bomba...» disse Hubble. «Una forza, una violenza più grande di qualsiasi altra mai conosciuta. Una violenza troppo grande per essere contenuta nei confini ordinari della materia. Troppo grande per sprecare la sua energia in una insignificante distruzione fisica. Invece di distruggere gli edifici, quella violenza ha distrutto lo spazio e il tempo. »
Il rifiuto di Kenniston a tutto ciò si espresse in un grido rauco.
«Hubble! No! Questa è pazzia! Il tempo è assoluto...»
«Tu lo sai che non è così» obiettò Hubble. «Tu lo sai, dai lavori di Einstein, che il tempo per se stesso non esiste, che esiste invece una continuità spazio-tempo. E questa continuità è ricurva, e una forza sufficientemente grande potrebbe sbalestrare la materia da un punto all’altro della curva.»
Sollevò una mano tremante verso quello spettrale paesaggio, oltre i limiti della città.
«E quella forza immensa, sprigionatasi dalla prima bomba superatomica, ha compiuto tutto ciò. Ha spedito questa città in un’altra parte della curva spazio-tempo, in un’altra epoca, a milioni di anni nell’avvenire, in questa Terra morente del futuro!»
Quando tornarono nei laboratori, il resto del personale li stava attendendo. Erano in tutto una dozzina di uomini, di età varia, da quella di Crisci a quella del vecchio Beitz, e se ne stavano, rabbrividendo, di fronte all’edificio, nella fredda e rossastra luce del sole. Anche Johnson era con loro, in attesa della sua risposta. Hubble guardò Johnson, poi tutti gli altri.
«È meglio che rientriamo» disse.
Nessuno rivolse quelle domande che pur premevano dentro ciascuno di loro. Silenziosamente, seguirono Hubble attraverso il portone dell’edificio. Si muovevano a scatti, con impaccio, come se la tensione nervosa fosse divenuta tale da inibire i loro riflessi. Anche Kenniston li seguì, ma non per tutto il percorso.
Si fermò davanti alla porta del suo ufficio, e disse: «Voglio accertarmi che non sia successo niente a Carol.»
«Non dirle nulla di quanto è accaduto, Ken» gli consigliò Hubble.
«No» ribatté Kenniston. «Non le dirò nulla.»
Entrò nel suo piccolo ufficio e chiuse la porta. Allungò una mano sulla scrivania per afferrare il ricevitore, ma poi la ritrasse. Il terrore che prima lo aveva sconvolto ora si era trasformato in una specie di torpore, di insensibilità, come se fosse stato troppo grande per essere contenuto in un corpo umano e fosse traboccato fuori, portando con sé tutta la forza e la volontà. Guardò quel familiare strumento e pensò alla sua inutilità, alla inutilità di quei grossi elenchi della guida telefonica, con una quantità di nomi e di numeri appartenenti a persone che erano una volta vissute nei villaggi e nelle città vicine e che ora non esistevano più, da... da quanto tempo? Un’ora e poco più, se si pensava in un dato modo. Ma, se si pensava in un altro modo...
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