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Harry Harrison: Mondo maledetto

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Harry Harrison Mondo maledetto

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Sul pianeta Pyrrus è in corso una guerra tra gli uomini che lo stanno colonizzando e gli originari abitanti: sembra quasi che tutta la flora e la fauna di Pyrrus sia in lotta contro i coloni. È in questa fase che si inseriscono le avventure di Jason DinAlt, giocatore professionista con poteri paranormali, che con la sua intelligenza e il suo coraggio riuscirà a far cessare la guerra.

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Il cielo si oscurò di colpo, e uno scroscio di pioggia bagnò la foresta.

Prima che la visibilità si annullasse del tutto, Jason si orientò. Una catena frastagliata di montagne si distingueva all’orizzonte; ricordò che in volo le avevano sorpassate. Quella sarebbe stata la prima tappa quando le avrebbe raggiunte, avrebbe deciso. Già fradicio e rabbrividendo, si avviò.

Scese la notte, e pioveva sempre. Non c’era modo di riconoscere la direzione; era inutile proseguire. Inoltre, Jason era esausto. Non ebbe la forza di arrampicarsi su un albero; impossibile trovare un punto asciutto dove ripararsi. Infine, si raggomitolò contro un tronco, a sottovento, e si addormentò tremando, mentre l’acqua continuava a scorrergli addosso.

A mezzanotte circa, smise di piovere, e la temperatura scese. Jason si svegliò da un incubo in cui gli era sembrato di morire assiderato, e scoperse che quella era quasi la verità. Piccoli batuffoli di neve impolveravano gli alberi e il terreno. Il gelo gli mordeva la carne, e quando sternutì sentì un forte dolore al petto. Desiderava soltanto di riposare; ma un’ultima scintilla di intelligenza lo spinse ad alzarsi. Rimanere sdraiato, sarebbe stata la morte. Sostenendosi con una mano a un tronco, cominciò a girargli attorno. Un passo dopo l’altro, e un altro, e un altro, strascicando i piedi, e poi ancora, sin quando smise di tremare. La fatica lo opprimeva come una cappa di piombo. Continuò a camminare, con gli occhi chiusi, riaprendoli soltanto quando cadeva e doveva rialzarsi.

All’alba, il sole dissolse le nubi che avevano portato la neve. Jason lo guardò con gli occhi doloranti. Appoggiandosi con la schiena al tronco, scivolò a terra, dove i suoi passi avevano cambiato la neve in fanghiglia.

La tosse, ormai quasi senza sosta, gli artigliava il petto con dita di fuoco. E il sole bruciava già.

Qualcosa non andava… Quel pensiero lo tormentò, sin quando comprese.

I sintomi erano chiari.

Polmonite.

Le sue labbra aride si screpolarono, e il sangue le inumidì, quando Jason sorrise. Era riuscito a evitare tutte le belve di Pyrrus, i carnivori e i rettili, per restare colpito da un microbo. Be’, anche a quello c’era rimedio!

Rimboccandosi la manica con le dita che tremavano, premette il braccio contro l’apparecchio di pronto soccorso. Scattò, e cominciò a ronzare. Poi emise un fischio. Ciò significava qualcosa, Jason lo ricordava, ma cosa…?

Guardando, vide che una siringa sporgeva dall’alveolo. Certo! Era vuota.

Non c’era più antibiotico.

Jason la gettò lontano, imprecando, e cadde in una pozzanghera. Fine dell’antibiotico, fine del pronto soccorso, e fine di Jason dinAlt. Era bastato un giorno a eliminarlo.

Sentì un ringhio alle sue spalle. Si voltò di scatto, sparando. Tutto era finito, prima quasi che se ne accorgesse. L’addestramento aveva condizionato i suoi riflessi addirittura a livello precorticale. Jason fissò spaventato la bestia che moriva a meno di un metro da lui. L’avevano addestrato bene davvero.

La prima reazione fu di infelicità; aveva ucciso un «cane». Ma quando lo osservò meglio, si accorse che era un po’ diverso da quelli che aveva visto presso i grubbers. Anche se il colpo gli aveva incenerito le zampe anteriori, e mentre il sangue ne usciva zampillando, sempre più lento, tentava nell’agonia di raggiungere Jason.

No, non era un cane; forse una specie di lupo. Chissà se anche su Pyrrus i lupi cacciavano a branchi?

Appena quel pensiero lo colpì, alzò gli occhi al momento giusto. Gli animali strisciavano fra gli alberi, avvicinandosi a semicerchio. Quando ne abbatté due, gli altri scomparvero nella foresta. Ma non si allontanarono.

Un coro di ululati si alzò tutt’intorno.

Jason rimase seduto, con le spalle appoggiate al tronco, e aspettò che gli animali si avvicinassero. A ogni colpo, a ogni compagno caduto, i sopravvissuti ululavano più forte.

In fondo, avere la febbre era un vantaggio, pensò. Capiva che sarebbe rimasto vivo soltanto fino al tramonto, o fino all’esaurimento delle munizioni. Eppure, ciò non lo preoccupava. Non molto, almeno. Si rilassò, alzando il braccio soltanto per sparare. A intervalli, doveva alzarsi per guardare dietro l’albero…

Chissà quando, nel pomeriggio, tirò l’ultimo colpo. Uccise un animale che aveva lasciato avvicinare di proposito. S’era accorto che la sua mira non era molto buona, da lontano. La bestia cadde. Un’altra belva comparve, e Jason premette il grilletto. Sentì soltanto uno scatto.

La pistola era vuota, come il caricatore di riserva alla cintura; non ricordava più quante volte aveva ricaricato l’arma.

Dunque quella era la fine. I coloni avevano avuto ragione. Pyrrus era terribile. Ma non avrebbero dovuto parlare troppo forte. Anche loro avrebbero fatto la stessa fine, prima o poi.

Ora che non doveva più costringersi a stare in guardia, la febbre lo vinse.

Desiderò di dormire, e immaginò che sarebbe stato un lungo sonno.

Guardò con gli occhi semichiusi i carnivori che si avvicinavano. Il primo arrivò a distanza utile per il balzo… Tese i muscoli, per scattare. Scattò.

Roteò in aria, e cadde senza toccarlo. Uno schizzo di sangue bagnò Jason. Da una tempia del mostro spuntava l’asta di una freccia.

Due uomini uscirono dal bosco. Parve che la loro presenza bastasse a spaventare i carnivori, che scomparvero.

Grubbers. Aveva avuto tanta fretta di raggiungere la città, che aveva dimenticato i grubbers.

Provò un sentimento di gratitudine. Sorrise. Ma le labbra gli facevano male. Così, si abbandonò al sonno.

22

Per chissà quanto, da quel momento, ebbe soltanto ricordi confusi.

Movimento, bestie grandi attorno… Pareti, fumo di legna, un mormorio di voci. Cosa importava? Meglio dormire.

— Era quasi ora — esclamò Rhes. — Due giorni ancora, e avremmo dovuto seppellirvi.

Jason lo fissò, sforzandosi di mettere e fuoco la vista. Lo riconobbe, infine, e volle rispondere; ma subito un accesso di tosse lo scosse tutto.

Qualcuno gli avvicinò alle labbra una coppa di liquido dolciastro.

— Siete qui da otto giorni proseguì Rhes. — Perché non avete obbedito a quello che vi avevo detto? Avreste dovuto rimanere vicino alla scialuppa.

Non ricordavate che vi avevo chiesto di scendere in un punto qualsiasi del continente? Ma ormai è inutile parlarne. Però la prossima volta, datemi retta. La mia gente è arrivata al relitto prima di buio! Un cane trovò le vostre tracce, ma poi le perse nella palude. È scesa la neve… Il giorno dopo, i miei stavano già per mandare a chiedere aiuti, quando vi hanno sentito sparare. Hanno fatto appena in tempo, da quanto mi hanno detto.

Per fortuna, uno di loro sapeva parlare ai cani selvatici, e li ha costretto ad allontanarsi. Altrimenti, avrebbero dovuto ucciderli tutti, e sarebbe stato un male.

— Grazie — riuscì a dire Jason. — Poi cos’è successo? Mi ricordo che avevo la polmonite. Sembra che i vostri rimedi non siano poi tanto inutili.

Gli mancò la voce, quando Rhes scosse la testa, adagio. No. Rughe profonde gli si incidevano sul volto. Jason si guardò attorno, e vide Naxa e un altro individuo. Sembravano egualmente preoccupati.

— Cos’è…? — domandò. — Se i vostri rimedi non sono serviti… cos’è stato?

Il mio pronto soccorso era esaurito.

— Morivate — rispose Rhes con voce lenta. — Non saremmo riusciti a curarvi, con i nostri mezzi. Soltanto un apparecchio dei coloni avrebbe potuto farlo. Abbiamo usato quello del guidatore del turbocarro.

— Ma come…? — domandò Jason, sbalordito. — Non ve l’avrebbe consegnato mai, di sua volontà.

Rhes annuì. — Certo. Era morto… L’ho ucciso io. Con piacere.

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