Fred Hoyle - L’insidia di Andromeda

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L’insidia di Andromeda: краткое содержание, описание и аннотация

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Si perché il romanzo «L’insidia di Andromeda» non solo è il seguito del primo «A come Andromeda» ma si inserisce cronologicamente dove quest’ultimo termina, con gli stessi personaggi e l’evoluzione della vicenda…

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«Quando uno è in una posizione come la mia,» disse, «il governo deve dare dei risultati, o non può sopravvivere. La Intel dà dei risultati.»

Ritornò verso il centro della stanza, ma rimase in piedi. «Io sono un moderato,» sorrise, «ma ci sono fazioni, qui, che sono fiere, giovani, impazienti. E sono anche potenti. Ho bisogno di tutto l’aiuto che posso trovare, per mantenermi fedele il popolo.»

La porta si era aperta, ed era apparso il ragazzo negro. Nelle mani reggeva un telefono. Lo poggiò in una nicchia del muro, quindi porse al presidente il microfono. Il presidente lo prese ed ascoltò. Disse poche parole in arabo, quindi rese il microfono al negretto.

Di nuovo, traversò la stanza, andando verso la finestra. Un tonfo sordo, molto lontano, fece vibrare un poco il vecchio edificio, seguito da una secca scarica di fucili automatici. Il presidente richiuse la tenda sulla finestra e si volse a guardare la sua ospite.

«Non credo, professoressa, che sarò in grado di aiutarla. La telefonata era del colonnello Salim, un ufficiale efficiente ed ambizioso.» Fece una pausa, per ascoltare il rombo lontano di alcuni grossi motori che passavano e il fracasso delle escavatrici che cresceva rapidamente di volume, sulla strada principale davanti al palazzo. «Questa, immagino,» disse, «è la prova di quanto mi ha detto.»

Comprendendo soltanto a metà, la Dawnay si alzò e si mosse esitante verso la porta, ringraziandolo per la pazienza che aveva avuto nell’ascoltarla. Solo molto più tardi si ricordò di non aver nemmeno chiesto il permesso di visitare la costa.

«Arrivederci, professoressa,» disse il vecchio. Non la guardava. Si sedette, molto eretto, del tutto immobile, su un’antiquata sedia dallo schienale alto. La Dawnay ebbe l’impressione di vedere un re, al quale fosse rimasta solo la sua dignità come sostegno.

Il ragazzo negro stava fuori, nel corridoio. I suoi occhi erano spalancati dalla paura o forse dall’eccitazione. Nella sua agitazione, quasi si mise a correre nello scortarla verso il cortile.

La macchina con la quale era venuta, se ne era andata. Le si fecero invece incontro due soldati, che le si misero ai lati, indicandole con i fucili che avrebbe dovuto aspettare vicino al cancello. Poco dopo, arrivò una piccola macchina dell’esercito, e si fermò davanti al portico. I soldati fecero dei cenni con la testa perché vi entrasse.

Un giovane ufficiale la salutò militarmente. «La riportiamo indietro noi, signorina,» disse, in un inglese rotto.

Durante il viaggio di ritorno, il conducente della macchina dovette accostare spesso su un lato della strada, per non ostacolare le colonne di mezzi dell’esercito che correvano rombando verso Baleb. C’erano mezzi cingolati ed alcuni carri armati leggeri. I soldati a bordo erano completamente equipaggiati ed armati, ma stavano in piedi. Era chiaro che non si aspettavano una vera sparatoria.

I cancelli del campo della Intel erano aperti, ma davanti ad essi stazionava un carro armato, e dovunque si vedevano gruppi di soldati con l’elmetto. La Dawnay fu portata direttamente ai suoi quartieri, dove altre truppe erano di pattuglia. Il giovane ufficiale che l’aveva accompagnata le rese noto gentilmente, ma in modo molto fermo, che avrebbe dovuto rimanere nella sua stanza fino a nuovo ordine.

Il colpo di stato militare organizzato da Salim era basato su tre azioni — chiudere tutte le frontiere ed i porti, impadronirsi della capitale, e proteggere gli stabilimenti della Intel. L’azione per la Intel, naturalmente, era soltanto una formalità, grazie a Janine Gamboul.

La prima notizia che Fleming ebbe su quello che stava accadendo gli giunse da Abu Zeki. I due uomini avevano litigato per la seconda volta. Abu aveva orgogliosamente detto a Fleming che la distruzione dei fogli con le equazioni per il missile era stata inutile, perché il nastro perforato principale era intatto. Aveva proseguito illustrando con orgoglio la forza e le possibilità che il suo paese avrebbe avuto ora, con i mezzi di difesa che il calcolatore avrebbe progettato.

«Abbiamo già conquistato un potere. Il colonnello Salim e le sue truppe si sono fin da ora addossati il compito di proteggerci.»

«Da parte del presidente?»

«Il presidente è un uomo troppo vecchio e stanco. È finito.»

«E la Intel?»

«Stanno già togliendole ogni potere, alla Intel,» rispose Abu Zeki. Poi, notando l’occhiata di Fleming verso la consolle dei controlli, la cui sedia era vuota: «Se sta cercando la ragazza, non è qui. È in nostra custodia.»

Fleming corse fuori dell’edificio, affrettandosi verso la zona residenziale. Due guardie armate stavano davanti alla porta di André. Cercò di passare in mezzo ad esse, ma non si spostarono nemmeno.

«Non la lasceranno entrare; temo che non si fidino più di lei, professor Fleming,» disse una voce familiare.

Girò su se stesso. Kaufmann camminava lentamente verso di lui, con un ghigno. «Ad ogni modo, la ragazza non è qui,» continuò. «Si stanno occupando di lei. Nel frattempo, mademoiselle Gamboul vuole vederla.»

«Dove?» ringhiò Fleming, «e quando?»

Il sorriso di Kaufmann scomparve. «Ora,» disse, «verrà con me.» Lo guidò alla sua macchina.

Si diressero verso la casa di Salim. Non c’erano soldati, là, né servi a riceverli, mentre salivano le scale. Kaufmann aprì una porta, invitando Fleming ad entrare. La porta si chiuse e fu lasciato solo. Camminò un poco per la stanza nella quale aveva per la prima volta incontrato Salim, poi andò verso il balcone. Qualche minuto dopo, si diresse verso il limite estremo del terrazzo, dove delle sedie di bambù erano disposte intorno ad una tavola. Sulla tavola c’erano delle bottiglie di whisky e dei bicchieri. Sentiva il bisogno di bere qualcosa. Nell’avvicinarsi, passò oltre una tenda contro il sole ed accanto ad una sedia a sdraio. Ebbe un involontario sussulto di spavento.

Janine Gamboul giaceva abbandonata su un fianco, con la testa piegata oltre la spalliera ed un braccio pendente verso il pavimento. Il suo volto appariva pallido come la cera, ad eccezione del segno rosso delle labbra e del nero delle ciglia, mentre gli occhi semiaperti lo fissavano.

La prima impressione di Fleming fu che fosse morta. Si chinò e le pose una mano dietro la nuca, appoggiandole il capo sulla spalliera. Ella gemette.

Poi, mentre le accostava al corpo il braccio pendente, vide il bicchiere sul pavimento. Lo odorò: era whisky.

Stava per andarsene, quando ella aprì gli occhi del tutto e rise. Si tirò su con qualche difficoltà e, mezzo sdraiata, gli fece goffamente cenno con la mano.

«Credeva che fossi morta?» sogghignò. «Non è così, come vede. Ho detto io a Kaufmann di portarla qui. Volevo parlarle.»

Con uno sforzo accurato, mise i piedi sul pavimento e si alzò incerta. «Adesso ti dò da bere.» Si mosse traballando verso la vicina tavola.

Versò del whisky in due bicchieri, poi si guardò intorno. «Non c’è niente seltz,» borbottò confusamente, «io l’ho bevuto liscio, ma tu vuoi di sicuro la soda, vero? Salim deve averne nella sua stanza.»

Riuscì faticosamente a prendere in mano i due bicchieri, e si avviò ondeggiando verso la porta-finestra. Fleming era rimasto immobile, e la fissava.

Janine Gamboul si volse a guardarlo. «Perché mi sta guardando così?» chiese con la lingua impastata. Poi, con un sorriso astuto: «Non è il caso che si faccia delle idee su di me; non, almeno, finché io non abbia saputo tutto sull’altra donna, la sua donna…»

Riprese a camminare, poggiando i bicchieri su di una pesante credenza, mentre si inchinava barcollando per aprirne gli sportelli. Nell’interno c’erano due sifoni per il seltz, ma sembrava che fosse per la Gamboul uno sforzo troppo grande tirarli fuori dal mobile. Prese, invece, i bicchieri a turno e vi schizzò la soda. Fleming, che non l’aveva seguita nella stanza, non vide con quale cura e precisione ella ne riempisse ognuno da un sifone diverso.

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