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Fredric Brown: Arena

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Fredric Brown Arena

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Fredric Brown

Arena

Carson aprì gli occhi e si trovò a guardare verso l’alto, in una tremolante semioscurità azzurra.

Faceva caldo. Lui era disteso sulla sabbia, e uno spuntone roccioso che sporgeva gli faceva male alla schiena. Rotolò sul fianco, scostandosi dalla roccia, e si rizzò a sedere.

«Sono pazzo», pensò. «Pazzo… o morto… o qualcosa di simile». Anche la sabbia era azzurra, azzurro-vivo, e non c’era niente di simile a questa sabbia azzurra sulla Terra o su qualcun altro dei pianeti.

Sabbia azzurra.

Sabbia azzurra sotto una volta azzurra che non era il cielo e neppure una stanza, ma una porzione circoscritta di spazio… in qualche modo lui sapeva che era circoscritta, finita, anche se non riusciva a coglierne la sommità.

Raccolse un po’ di sabbia tra le mani e la lasciò scorrere tra le dita. Colò giù, sulla sua gamba scoperta. Scoperta?

Nuda. Lui era completamente nudo, e già il suo corpo era madido di sudore per lo snervante calore, macchiato d’azzurro là dove la sabbia l’aveva toccato, appiccicandosi.

Ma dove non era sporco di sabbia, il suo corpo era bianco.

Rifletté: Allora, questa sabbia è davvero azzurra. Se fosse sembrata azzurra soltanto a causa di questa luminosità azzurra, allora sarei azzurro anch’io. Ma sono bianco, e allora la sabbia è azzurra. Sabbia azzurra. È qualcosa che non esiste. Non esiste nessun posto come questo, dove mi trovo adesso.

Il sudore gli sgocciolava sugli occhi.

Faceva caldo, caldo come all’inferno. Solo che l’inferno — quello degli antichi — avrebbe dovuto essere rosso, e non azzurro.

Ma se quel posto non era l’inferno, allora cos’era? Soltanto Mercurio, fra i pianeti, era caldo così. Ma questo non era Mercurio. E Mercurio si trovava a quattro miliardi di miglia da…

Allora, ricordò dove si era trovato prima. In quel piccolo ricognitore monoposto, fuori dell’orbita di Plutone, a esplorare poco meno d’un milione di miglia cubiche su un fianco dell’Armata Terrestre disposta in ordine di battaglia per intercettare gli invasori.

L’improvvisa, stridula esplosione spezza-nervi del campanello d’allarme quando il ricognitore rivale — lo scafo alieno — era giunto alla portata dei suoi rilevatori…

Nessuno sapeva chi fossero gli invasori, che aspetto avessero, da quale lontana galassia arrivassero, salvo che essa si trovava all’incirca nella direzione delle Pleiadi.

Dapprima, sporadiche incursioni contro colonie e avamposti terrestri. Battaglie isolate fra pattuglie terrestri e squadriglie d’invasori; scontri a volte vinti e a volte persi, ma, fino ad oggi, non conclusi mai con la cattura di un vascello nemico. E nelle colonie aggredite, nessuno era mai sopravvissuto per descrivere gli invasori usciti fuori dalle loro navi a combattere, se mai ne erano usciti.

All’inizio, la minaccia non era stata giudicata seria, poiché le incursioni non erano state numerose, o troppo distruttive. E, prese singolarmente, le loro navi si erano mostrate leggermente inferiori, come armamento, alle migliori navi da combattimento terrestri, anche se erano un po’ superiori quanto a velocità e a manovrabilità. Un vantaggio, quest’ultimo, sufficiente a dare agli invasori la scelta tra fuggire o combattere, a meno che non fossero circondati.

La Terra, comunque, si era resa conto della gravità del pericolo, e aveva costruito la più grande armata spaziale di tutti i tempi. Da molto quell’armata aspettava, ma adesso la resa dei conti era imminente.

I ricognitori terrestri, inviati nello spazio esterno, avevano rilevato, a venti miliardi di miglia di distanza, l’avvicinarsi di una immensa flotta, quale, appunto, ci si poteva attendere per la battaglia decisiva. Quei ricognitori non erano mai tornati indietro, ma i loro messaggi radiotronici sì. E adesso l’armata della Terra, tutte le diecimila navi e il mezzo milione di uomini armati fino ai denti, erano là fuori, oltre l’orbita di Plutone, in attesa d’intercettare il nemico e di combattere fino alla morte.

E sarebbe stata una battaglia ad armi pari, a giudicare dai rapporti inviati dagli uomini spintisi in avanscoperta oltre quell’immenso abisso di spazio, i quali, prima di affrontare consapevolmente la morte, erano riusciti a inviare dettagliate notizie sulle dimensioni e la potenza di fuoco della flotta nemica.

Era in gioco il dominio del sistema solare, ed entrambe le parti avevano un’uguale probabilità di vincere la battaglia. Per la Terra, era l’ultima possibilità di salvezza, poiché si sarebbe trovata, con le sue colonie, alla totale mercé degli invasori, se questi fossero riusciti a sfondare quello sbarramento…

Oh, sì. Adesso Bob Carson ricordò.

Non che ciò spiegasse la sabbia azzurra e la tremolante semioscurità azzurrastra in cui si era risvegliato. Ma l’assordante stridio del campanello d’allarme, e il suo balzo verso il pannello dei comandi. Il suo frenetico armeggiare mentre si assicurava con la cinghia al seggiolino. Il punto nero che s’ingrandiva sulla piastra video.

La bocca arida. La spaventosa consapevolezza che era giunto il momento. Per lui, almeno, malgrado le flotte principali fossero ancora fuori portata l’una dall’altra.

Il suo primo, duro assaggio. Nel giro di tre secondi, o meno, sarebbe uscito vittorioso dallo scontro, oppure ridotto in polvere carbonizzata. Morto.

Tre secondi… la durata di una battaglia nello spazio. Il tempo sufficiente a contare lentamente fino a tre, poi avevate vinto, o eravate morti. Un colpo solo bastava a liquidare un piccolo apparecchio monoposto come il suo ricognitore, dallo scarso armamento e la blindatura leggera.

Frenetiche, quasi automaticamente, le sue labbra asciutte avevano formato la parola «Uno», mentre manovrava per mantenere quel punto che s’ingrandiva al centro esatto della sottile griglia telemetrica sulla piastra video. L’avevano fatto le sue mani, mentre il suo piede destro era rimasto sospeso sopra il pedale che avrebbe fatto partire la scarica. Un solo vortice d’inferno concentrato che doveva far centro… Non ci sarebbe stato il tempo per un secondo colpo.

«Due». Nemmeno si era reso conto di averlo detto. Il punto sulla piastra video, adesso, non era più un punto. Distante solo poche migliaia di miglia, la sua immagine sulla piastra lo mostrava come se fosse a qualche centinaio di metri. Era un piccolo ricognitore, agile e veloce, grande all’incirca come il suo.

Uno scafo alieno, senza alcun dubbio.

«Tr…» Il suo piede aveva abbassato il pedale, per far partire la scarica…

E all’improvviso, l’invasore aveva virato stretto, guizzando fuori dal mirino. Carson aveva freneticamente manovrato per seguirlo.

Per un decimo di secondo, il nemico era uscito del tutto dalla piastra video, poi, dopo aver virato, Carson tornò a vederlo, che puntava alla massima velocità verso il suolo.

Il suolo?

Poteva esser soltanto un’illusione ottica. Doveva esserlo. Quel pianeta, o qualunque altra cosa fosse, che ora invadeva quasi completamente la piastra video, non poteva esser lì. Non era possibile. Non c’era nessun pianeta più vicino di Nettuno, a tre miliardi di miglia di distanza… e Plutone remotissimo, sul lato opposto rispetto al Sole.

I suoi sensori ! Non avevano mostrato nessun oggetto di dimensioni planetarie, o anche soltanto un asteroide. E continuavano a non mostrarlo.

Perciò non poteva trovarsi lì, qualunque cosa fosse quell’immensa cosa verso la quale si stava tuffando, a poche centinaia di miglia sotto di lui.

E nella sua improvvisa ansia di evitare di schiantarsi, si era perfino dimenticato del vascello nemico. Aveva acceso i razzi frenanti frontali, e quando la brusca diminuzione di velocità l’aveva sbattuto in avanti, contro la cinghia del sedile, aveva acceso i razzi tutto a destra per una virata di emergenza. Li aveva spinti al massimo, e ce li aveva tenuti, cocciutamente, ben conscio di dover dare tutta la potenza che poteva spremere dai propulsori per impedire alla nave di schiantarsi… anche se sapeva che una simile, tremenda accelerazione gli avrebbe fatto perdere i sensi per qualche attimo.

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