Spider Robinson - Con qualunque altro nome
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- Название:Con qualunque altro nome
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- Издательство:Nord
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- Год:1984
- Город:Milano
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in 1977.
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Decisi di sostituire la medicazione improvvisata sul bicipite lacerato. Non mi piaceva l’insistenza martellante del dolore; mi teneva sveglio ma disturbava la mia concentrazione. Mi infilai nel primo grande magazzino che mi sembrava difendibile, e mi ritrovai lungo disteso sul pavimento dietro un tavolo rovesciato, ad augurarmi con tutte le mie forze che non fosse così fragile.
Qualcosa s’era mosso.
Poi mi alzai, vergognandomi un po’, rimisi nella fondina la pistola e diedi una pacca sulle mani alle mie sentinelle subconsce, per la seconda volta in mezz’ora. Era la mia faccia, quella che mi guardava dallo specchio sudicio lungo una intera parete, con i capelli neri e crespi tutti aggrovigliati, le labbra carnose stirate in una specie di sogghigno. Non era un sogghigno. Non mi ero reso conto di avere un aspetto cosi orribile.
Mio padre mi aveva detto tante cose della Civiltà prima dell’Esodo, ma credo che non la capirò mai. Un’occhiata intorno a quell’enorme stanzone sollevava più interrogativi di quanti ne risolvesse. Sulla mia sinistra, di fronte allo specchio grande, c’era una serie di specchi più piccoli che procedevano paralleli per tre quarti della lunghezza, e davanti c’erano strane sedie. Sembravano poltrone di metallo, imbottite dov’era necessario, con le leve per alzarle e abbassarle. Sulla mia destra, sotto lo specchio più lungo, c’erano moltissime sedie di legno, più piccole e molto più semplici, una fila serrata interrotta ogni tanto da strane intelaiature dalle quali pendevano pezzi di stoffa marcia. Potevo soltanto immaginare che quello fosse una specie di arcano paradiso per narcisisti, dove uomini molto egocentrici venivano, si spogliavano, si adagiavano sulle poltrone sontuosamente imbottite e contemplavano la propria magnificenza. Le sedie più basse e meno lussuose, troppo basse per offrire una visibilità decente, senza dubbio rappresentavano le sistemazioni di seconda classe o a tariffa ridotta.
Ma che significato avevano gli armadi tra le poltrone grandi e il muro, carichi di bottiglie e recipienti di plastica e di oggetti pagani? E perché tutti gli scheletri, in quello stanzone, erano ammucchiati insieme al centro, come se negli ultimi secondi di vita si fossero disputati freneticamente qualcosa?
Vidi un luccichio nel mucchio d’ossa e vidi per che cosa si erano battuti quei poveracci, e capii che cos’era stato quel posto. L’oggetto contestato era un rasoio a lama libera.
Mio padre aveva passato diciotto dei miei vent’anni a spiegarmi perché dovevo odiare Wendell Carlson, e in quegli ultimi giorni avevo scoperto quasi altrettante ragioni per conto mio. Intendevo elencarle nel necrologio di Carlson.
M’investì un’ondata di stanchezza. Mi avvicinai a una delle poltrone, premetti cautamente sul sedile per assicurarmi che non ci fosse un meccanismo in attesa che la mia massa lo facesse scattare (sempre l’addestramento di Collaci… se mai il Maestro andrà in Paradiso, controllerà che non ci siano trabocchetti), mi tolsi lo zaino e sedetti. Mentre srotolavo la benda intorno al braccio mi guardai casualmente nello specchio e restai immobile, paralizzato dalla meraviglia. Una serie infinita di me si estendeva nell’eternità, innumerevoli migliaia di Isham Stone colti in quel momento raggelato di tempo che racchiude innumerevoli migliaia di possibili futuri sulla punta di una piramide inimmaginabile. Sapevo che erano semplicemente gli specchi opposti, e che quello davanti a me era leggermente di sbieco, e avrei potuto prevedere il fenomeno se ci avessi pensato… ma non me l’aspettavo e non avevo mai visto niente di simile in tutta la mia vita. All’improvviso, provai la tentazione fortissima di sdraiarmi, accendere uno spinello preso dalla cassetta del pronto soccorso nel mio zaino e meditare per un po’. Mi chiesi cosa stava facendo Alia in quel momento. Diavolo, avrei potuto uccidere Carlson al crepuscolo e dormire nel suo letto… oppure rintanarmi lì e ucciderlo l’indomani, oppure il giorno dopo. Quando mi fossi sentito meglio.
Poi vidi la prima immagine della fila. Me. Di regola, in un negro i lividi non si vedono in modo spettacoloso, ma c’era qualcosa di colorato sopra il mio occhio destro che poteva andar bene, in attesa di un vero livido. Ero lurido, avevo bisogno di radermi, e il lungo taglio che andava dall’occhio sinistro al labbro superiore era infiammato. Il maglione nero era strappato in tre punti, a quel che potevo vedere, e macchiato di sangue dove non era lurido. Forse sarebbe passato parecchio tempo prima che mi sentissi meglio di quanto mi sentivo adesso.
Poi abbassai lo sguardo su quello che c’era sotto la garza che avevo appena tolto, vidi le striature nere sul marrone cioccolata del mio braccio, e la tentazione di aspettare svanì come un Musky surriscaldato.
Guardai meglio e cominciai a fischiettare tra i denti Good Morning Heartache , in sordina. Non avevo più neosulfamidici, avevo pochissime bende, e sembrava che dovessi risparmiare tutti gli analgesici che avevo per fumare sulla strada di casa. La cosa migliore che potevo fare era finire il mio lavoro in città e andarmene, e trovare un Guaritore prima che mi marcisse il braccio.
All’improvviso pensai che così andava bene. Ricordai i due sacri doveri che mi avevano condotto a New York: quello verso mio padre e la mia gente, e quello verso me stesso. Per poco non ero morto, per dimostrare a me stesso che il secondo era impossibile; l’altro non mi avrebbe trattenuto a lungo. Io e New York eravamo, come avrebbe detto Bierce, «incompossibili».
In un modo o nell’altro, doveva essere presto.
Tornai a fasciare con cura il braccio incancrenito, mi caricai sulle spalle lo zaino e tornai a uscire, mettendomi in bocca, mentre camminavo, una tavoletta nutritiva e una piccolissima dose di eroina. Non aveva senso portare viveri autentici a New York… tanto, non potevi sentirne il sapore e poi pesano troppo.
Il sole era percettibilmente più basso nel cielo… il giorno era in fase di catabolismo. Scossi le spalle per assestare lo zaino e proseguii lungo la strada, aguzzando gli occhi per decifrare le insegne sbiadite.
Dopo due isolati trovai un negozio specializzato in roba psichedelica. Una Ford del ’69 divideva la vetrina con vari hookah fracassati e un paio di narghilé. Mi soffermai, di nuovo tentato. Un carico di pipe e di cartine avrebbe avuto un bel valore, a casa; i Techno e gli Agro avrebbero pagato parecchio per articoli da fumatore ben lavorati… un’altra prova che, come diceva sempre mio padre, l’utilità della tecnologia era sopravvissuta alla tecnologia stessa.
Ma questo mi ricordò di nuovo la mia missione, e scrollai furiosamente la testa per scacciare le fantasticherie che minacciavano di attardarmi… com’era la frase che aveva detto mio padre alla cerimonia della consegna dell’arma? «La Mano dell’Uomo Incarnato», cioè il prodotto di due anni d’addestramento al combattimento e di diciotto anni d’odio razziale. Quando avessi finito il mio lavoro avrei potuto rovistare in quelle trappole semicrollate per cercare pipe per l’hashish e cartine per la marijuana… la mia ultima deviazione aveva rischiato di uccidermi, molte miglia più a nord.
Ma avevo dovuto tentare. Avevo due anni appena al tempo dell’Esodo, ero troppo piccolo per conservare qualcosa di più di un’impressione confusa di terrore universale, di orrore caotico e di ripugnanza spaventosa, dovunque. Ma un episodio lo ricordo molto chiaramente. Ricordo mio fratello Israfel, a otto anni, inginocchiato in mezzo alla 116 aStrada a sbattere metodicamente la testa sul cemento. Molto tempo dopo che il cervello di Izzy s’era sparso per terra, il suo corpo minuscolo aveva continuato a sbattere giù il cranio fratturato, in uno spasmo convulso. Io lo vidi al di sopra della spalla di mia madre mentre correva, urlando di paura, attraverso l’incubo caoticamente contorto che, per tutto il tempo che lei aveva potuto ricordare, era stato soltanto un tranquillo incubo palpitante; mentre correva attraverso Harlem.
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