Spider Robinson - Con qualunque altro nome

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Vincitore del premio Hugo per il miglior romanzo breve
in 1977.

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Intuii che stava usando la strana macchina per comunicare con un Musky: e tutto l’odio e la rabbia che non avevano trovato uno sfogo traboccarono, contraendomi la faccia in una smorfia di furore.

Mi sembrava uno sforzo immane, non urlare una sfida primordiale: snudai i denti, credo. Bastardo, pensai furiosamente, ci hai messi a loro disposizione, ce li hai resi nemici, e adesso sei in combutta con loro. Ero stordito da quel tradimento incredibile, non lo capivo e non me ne importava. Mentre guardavo, da dietro e sulla sinistra, vidi che muoveva le labbra in silenzio, ma non m’importava che cosa dicesse, quale patto avesse concluso con le nubi di gas assassine. Un patto c’era. Era d’accordo con gli esseri che avevano ucciso mia madre e che virtualmente aveva creato lui. Presto sarebbe morto.

Tornai a letto adagio, con infinita cautela, e feci i miei piani.

Fui pronto a ucciderlo entro una settimana. Le costole, ormai, erano quasi guarite… mi ero accorto che i processi di restaurazione del mio corpo avevano aspettato soltanto che io decidessi di guarire, di lasciare il porto sicuro della convalescenza. Le forze erano ritornate, e presto potei camminare facilmente e persino vestirmi con cura, lasciando penzolante la manica sinistra. Il moncherino non doleva quasi più; aveva lasciato soltanto i numerosi e fastidiosi fenomeni tattili dei nervi recisi, il classico «braccio fantasma» e il fiume di sudore che sembrava colarmi dall’ascella sinistra ma che non scorreva sul fianco. Dato che Carlson aveva l’abitudine di dormire profondamente, conoscevo com’era disposto il piano terreno… e avevo recuperato le armi che lui, distratto com’era, non aveva buttato via. Le aveva «nascoste» nel ripostiglio delle scope.

Volevo sorprenderlo in un momento e in un luogo dove i suoi amici Musky non avrebbero potuto aiutarlo: ero certo che quelli che avevo distrutto io fossero guardie del corpo. Quasi immediatamente venne una notte fredda e ventosa: i venti erano troppo agitati perché i Musky potessero approfittarne.

Era quel tipo di notte che, quando ero bambino, sceglievamo per andare a fare un picnic o correre tra il fieno.

Mangiammo insieme nella mia stanza, un piatto di fagioli e lenticchie con tamari e pane fresco, e quando Carlson ebbe finito l’ultimo sorso di caffè, io tirai fuori dalla coperta il fucile e glielo puntai in faccia.

— Fine della corsa, Wendell.

Restò assolutamente immobile, con la tazza ancora accostata alle labbra, e mi guardò con aria solenne per un lungo istante. Quindi posò la tazza, adagio, e sospirò. — Non credevo che l’avrebbe fatto così presto. Non sta ancora abbastanza bene, lo sa.

Io ghignai. — Se lo stava aspettando, eh?

— Da quando lei ha ritrovato le sue armi l’altra notte, Tony.

Il mio ghigno svanì. — E mi ha lasciato vivere? Wendell, ha tanta voglia di morire?

— Non sono capace di uccidere — disse lui, tristemente, e io scoppiai in una risata fragorosa.

— Forse non più, adesso. E certamente non più tra qualche minuto. — Ma hai ucciso prima, hai ucciso più di chiunque altro nella storia. Diavolo, Hitler e Attila al suo confronto erano dilettanti!

Carlson fece una smorfia. — Allora sa chi sono.

— Lo sa tutto il mondo. Quel che ne è rimasto.

Annuì, con gli occhi pieni di sofferenza. — Le poche volte che ho cercato di lasciare la città per trovare altri che mi aiutassero nel mio lavoro, mi hanno sparato. Due anni fa trovai nella Bowery un uomo che era stato aggredito da un branco di cani. Gli mancava un dente. Disse che era venuto a uccidermi, per la taglia sulla mia testa, e morì fra le mie braccia, maledicendomi, mentre lo portavo qui. Il prezzo che aveva detto era alto, e sapevo che ne sarebbero venuti altri.

— Eppure mi ha curato? Deve sapere che merita la morte. — Feci una smorfia. — Lei e i suoi Musky.

— Sa anche questo?

— L’ho visto, mentre parlava con loro, con quello strano casco in testa. Quelli che mi hanno attaccato erano le sue guardie del corpo, vero?

— I cavalieri del vento vennero da me circa vent’anni fa — disse sottovoce Carlson, distogliendo gli occhi. — Non mi fecero niente di male. Da allora, ho imparato a poco a poco a parlare con loro, in un certo senso, usando la retromente. Forse saremmo riusciti a capirci.

Il fucile stava diventando pesante per il mio unico braccio; era difficile prendere bene la mira. Appoggiai la canna sul ginocchio e spostai leggermente la presa. Avevo le mani sudate.

— Allora? — chiese lui in tono burbero. — Perché non mi ha ancora ucciso?

Era una domanda intelligente. Scrollai la testa, irritato. — Perché lo fece? — latrai.

— Perché creai il Virus Iperosmico? — La faccia grinzosa si rattristò ancora di più. Si tirò la barba. — Perché ero un maledetto sciocco, credo. Perché era un affascinante problema biochimico. Perché nessun altro avrebbe potuto farlo e perché non ero certo di riuscirci io. Quando incominciai, non sospettavo che sarebbe stato usato in quel modo.

— Diffonderlo fu una decisione presa al momento, è così? — ringhiai, premendo un po’ più sul grilletto.

— Credo di sì — disse lui, a voce bassa. — Naturalmente, questo potrebbe dirlo soltanto Jacob.

Chi ?

— Jacob Stone — rispose lui, sbalordito dalla mia violenza. — Il mio assistente. Mi sembrava che avesse detto di…

— Quindi ha sempre saputo chi sono — ringhiai.

Carlson batté le palpebre, sconcertato. Poi la comprensione apparve sul volto ossuto. — Ma certo — mormorò. — Certo. È il giovane Isham… Avrei dovuto riconoscerla. Sentivo l’odore del suo odio, naturalmente, ma non…

— Che cosa ?

— Sentivo l’odore del suo odio — ripeté lui, perplesso. — Non era molto difficile… è un odore molto forte, da un po’ di tempo.

Ma come poteva…? Impossibile, mi dissi.

— E adesso immagino che vorrà sfogare quell’odio e vendicare la morte di suo padre. Fu opera sua, ma non ha importanza: fui io a renderlo possibile. Avanti, prema il grilletto. — Chiuse gli occhi.

— Mio padre non è morto — dissi, completamente confuso.

Carlson riaprì gli occhi. — No? Credevo fosse morto quando liberò il Virus.

Mi rombavano gli orecchi; era impossibile prendere la mira. Avrei voluto urlare, maledire Carlson e dargli del bugiardo, ma sapevo che il professore svanito non era un attore. Balzai dal letto e corsi fuori dalla stanza, oltre i cancelli di ferro battuto dell’atrio, nella tenebra e nel vento urlante e in un grande caleidoscopio di stelle che vorticavano ebbre sopra di me. Con le costole indolenzite, camminai per cent’anni, stringendo il mio stupido fucile, noncurante dei pericoli rappresentati dai Musky e dai doberman affamati, perseguitato da mille demoni ululanti. Vagamente, sentii Carlson che mi chiamava, per un po’, ma lo distanziai senza difficoltà e continuai, in cerca dell’oblio. La città, trovando per la prima volta dopo due decenni la sua preda naturale, mi inghiottì doverosamente.

Più di un giorno dopo ebbi il primo pensiero cosciente. Mi accorsi che mi stavo fissando i calzini da più di un’ora, cercando di decidere di che colore erano.

Il mio secondo pensiero coerente fu che mi faceva male il sedere. Mi guardai intorno. Oltre le finestre panoramiche sfondate, il grande cadavere d’acciaio e di pietra che era New York giaceva sotto di me come un incredibile mosaico tridimensionale. Ero in cima all’Empire State Building.

Non ricordavo la lunghissima salita, né la fuga dalla Columbia University; e solo dopo che mi resi conto di quanto dovevo essere stanco, mi accorsi che lo ero. Le mie costole sembravano scartavetrate e i venti che investivano la cima del grattacielo erano freddissimi.

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