Joan Vinge - Occhi d'ambra

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Un magnifico, suggestivo ritratto di una civiltà aliena su un mondo alieno (inabitabile per i terrestri), e delle straordinarie possibilità e risultati dei tentativi di comunicazione tra due mentalità mutualmente esclusive.
Vincitore del premio Hugo per il miglior racconto
in 1978.

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Joan Vinge

Occhi d’ambra

La mendicante percorreva con passo strascicato la strada immersa nel silenzio della sera dietro alla città-casa di Lord Chwiul. Ella esitò, alzando lo sguardo alle torri che rilucevano tenui, poi artigliò il braccio della sentinella: — Una parola con il tuo padrone…

— Non toccarmi, megera! — La guardia sollevò la lancia, disgustata. Un agile piede scalciò fuori dagli stracci e gli fece perdere l’equilibrio. La sentinella si trovò lunga distesa sulla schiena, in mezzo alla poltiglia fangosa della neve semisciolta della primavera; la punta della lancia, impugnata da un diverso paio di mani, si abbassò verso il suo ventre. Egli restò a bocca aperta. La mendicante gli gettò un amuleto sul petto.

— Guardalo, sciocco! Ho affari da trattare col tuo Lord. — La mendicante fece un passo indietro. La punta della lancia frugò il ventre della sentinella, impaziente.

La guardia si contorse nello sporco e nel bagnato, portando l’amuleto vicino al viso, nella scarsa luce. — Tu… tu sei quella? Puoi passare…

— Davvero! — una risata soffocata. — Davvero posso passare… Per molte cose, in molti posti. La Ruota della Vita ci porta tutti. — Ella sollevò la lancia. — Sciocco, alzati… e non c’è bisogno di scortarmi. Sono attesa.

La guardia si alzò in piedi, sgocciolante e imbronciata, e si scostò mentre ella liberava le membrane delle sue ali dalle pieghe del tessuto. Egli le vide luccicare e allargarsi; poi lei si raccolse e balzò senza sforzo fino all’ingresso della torre, due volte la sua altezza sopra di lui. Soltanto quando lei fu scomparsa all’interno, la sentinella osò imprecare.

— Lord Chwiul?

— T’uupieh, presumo? — Lord Chwiul si sporse avanti dal giaciglio di muschi fragranti, scrutando fra le ombre della stanza.

Lady T’uupieh. — T’uupieh avanzò a lunghi passi verso la luce, lasciando che il cappuccio cencioso le scivolasse giù, rivelando il suo volto. Provò un aspro piacere a non mostrare alcun segno di riverenza, venendo avanti così, da nobile a nobile. Le sensuali increspature di centinaia di minuscole pelli di miih sotto i suoi piedi le provocarono un formicolio nelle piante callose. Dopo tanto tempo ecco che lo provo ancora, troppo facilmente…

Prese posto sul divano sull’altro lato del basso tavolo di pietracqua, di fronte a lui, stiracchiandosi languidamente nei suoi panni di mendicante. Protese un dito ad artiglio e raccolse una bacca di kelet dalla fruttiera posta sulla superficie del tavolo, scolpita di ornamentali volute, e se la fece scivolare in bocca e poi giù per la gola, come aveva fatto così spesso, tanto tempo prima. Infine sollevò lo sguardo, per misurare gli effetti del suo oltraggio.

— Tu osi venire da me in questo modo…

Soddisfacente. Sì, molto…

— Non sono venuta io da te. Sei tu che sei venuto da me… tu hai cercato i miei servigi. — Il suo sguardo vagò per la stanza con simulata indifferenza, osservando gli elaborati affreschi che ricoprivano le pareti di pietracqua perfino in quella piccola stanza privata… Soprattutto in quella stanza. Quanti incontri di mezzanotte, per i più complicati intrighi, si tenevano in quella stanza?, ella si chiese. Chwiul non era il più ricco della sua famiglia o del suo clan: e in quella città, in quel mondo, contava soprattutto apparire ricco e potente, poiché la ricchezza e il potere erano tutto.

— Ho chiesto i servigi di T’uupieh l’Assassino. Sono sorpreso nel constatare che Lady T’uupieh osa accompagnarlo qui. — Chwiul aveva riacquistato la sua calma; ella sembrò studiare il suo alito, e il proprio, due sbuffi di vapore turbinante. Poi riprese: — Dove va l’uno, l’altro lo segue. Siamo inseparabili. Tu dovresti saperlo meglio di molti altri, mio Lord. — Seguì il suo lungo, pallido braccio che si protendeva a infilzare numerose bacche con un unico movimento guizzante. Nonostante il gelo delle notti, egli indossava soltanto una leggera tunica che gli avvolgeva il corpo consentendogli ugualmente di esibire l’intricato sovrapporsi di gioielli che danzavano sulla superficie delle sue ali.

Egli sorrise; lei colse per un attimo le punte aguzze dei suoi denti. — perché mio fratello ha trasformato l’una nell’altro, quando ha preso le tue terre? Sono assolutamente sorpreso che sia venuta tu… come sapevi che potevi fidarti di me? — I suoi movimenti erano sgraziati; ella ricordò come il peso dei gioielli trascinasse giù le fragili, traslucide membrane delle ali e le braccia sottili fino a rendere il volo impossibile. Come ogni nobile, Chwiul era sempre circondato da servitori che soddisfacevano ogni suo capriccio. L’inettitudine al volo, finta o vera che fosse, era un altro segno distintivo del potere, un’ulteriore viziosità che soltanto i ricchi potevano permettersi. Ella si compiacque nel constatare che i suoi gioielli non erano della miglior qualità.

— Non mi fido di te — lei replicò. — Mi fido soltanto di me stessa. Ma alcuni amici mi hanno detto che tu in quest’occasione sarai sincero quanto basta… E non sono venuta sola, naturalmente.

— I tuoi fuorilegge? — disse incredulo. — Quelli non ti sarebbero di alcuna protezione.

Con calma ella scostò le pieghe del tessuto che celavano il segreto compagno al suo fianco.

— Allora è vero. — La voce sibilante di Chwiul fu quasi inaudibile. — Ti chiamano la Consorte del Demone.

Ella ruotò la lente d’ambra del prezioso occhio del demone, cosicché esso potesse esplorare l’intera stanza, come aveva fatto lei, poi puntò quell’occhio su Chwiul.

Egli si tirò istintivamente indietro, aggrappandosi al muschio.

— «Un demone ha mille occhi, e mille e mille tormenti per quelli che lo offendono» — citò dal Libro di Ngoss, dei cui rituali si era servita per legare a sé il demone.

Chwiul distese nervosamente il corpo, come se volesse fuggire. Ma si limitò a dire: — Credo, allora, che ci comprendiamo. E sono convinto di aver fatto una buona scelta: so che hai servito bene il Feudatario e altri membri della corte… Voglio che tu uccida qualcuno per me.

— Ovviamente.

— Voglio che tu uccida Klovhiri.

T’uupieh ebbe un lieve trasalimento: — A tua volta mi sorprendi, Lord Chwiul. Tuo fratello? — È l’usurpatore delle mie terre. Ho sempre ardentemente desiderato ucciderlo, lentamente, molto lentamente, con le mie stesse mani… Ma egli è sempre troppo ben protetto.

— E anche tua sorella, o mia Lady. — Una vaga sfumatura di scherno. — Voglio che l’intera sua famiglia sia sterminata, la sua compagna, i suoi figli…

Klovhiri… e Ahtseet. Ahtseet, la sua sorella più giovane, la sua amica più cara fin dall’infanzia, tutta la sua famiglia, da quando i loro genitori erano morti. Ahtseet che lei aveva sempre prediletto e protetto; la cara, piccola, connivente, traditrice Ahtseet, che aveva rinunciato all’orgoglio, alla decenza, all’onore della famiglia per unirsi volontariamente all’uomo che li aveva derubati di tutto… Qualunque cosa, pur di conservare le terre della famiglia, aveva strillato Ahtseet; qualunque cosa pur di conservare la sua posizione. Ma non in quel modo! Non con l’arrendersi, bensì contrattaccando… T’uupieh si accorse che Chwiul stava osservando le sue reazioni con vivo interesse, e ciò le dispiacque. Sfiorò il pugnale che aveva alla cintura.

— E perché mai? — gli chiese, scoppiando a ridere.

— Dovrebbe essere ovvio. Sono stanco di essere il secondo. Voglio ciò che ha lui: le tue terre e tutto il resto. Voglio che sia tolto di mezzo, e non voglio che rimanga nessuno che rivendichi la sua eredità più di quanto possa farlo io.

— Perché non agisci tu stesso? Forse avvelenandoli… è già stato fatto.

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