Roger Zelazny - Il boia torna a casa
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- Название:Il boia torna a casa
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- Издательство:Nord
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- Год:1984
- Город:Milano
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in 1976.
Anche pubblicato come “Il vendicatore”, “Il canto del delfino”, “Il mio nome è Legione”.
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— Seguì un altro quarto di minuto di respirazione pesante, alternata da una tosse rauca.
— … Detto troppo… troppo velocemente… troppo presto… Tutto esaurito…
Il quadro a quel punto si completò. Era accasciato davanti allo schermo, con la testa appoggiata sulle braccia, circondato dal sangue. I suoi occhiali erano in frantumi, stava ammiccando e strizzando gli occhi. C’era un taglio sulla guancia sinistra ed un altro sulla fronte.
— … raggiunto… mentre stavo controllandoti… — riusci a dire. — Devo dirti quello che ho scoperto… Non so ancora… chi di noi abbia ragione… Prega per me!
Le sue braccia ricaddero, il destro scivolò in avanti. La testa girò a destra e l’immagine scomparve. Quando ritornò, vidi che il capo era completamente ricaduto.
Poi cancellai la registrazione. Era stata impressa solo poco più di un’ora dopo che l’avevo lasciato. Se non aveva ancora fatto una telefonata in cerca di aiuto, se nessuno l’aveva trovato abbastanza velocemente, le sue possibilità non erano troppo buone. Anche se l’avessero trovato, però…
Usai un telefono pubblico per chiamare il numero che mi aveva dato Don, lo trovai quasi subito, gli dissi che Dave era in pessima forma per non dire di peggio, che era necessaria una squadra di medici di Memphis se non era ancora intervenuta, e che speravo di richiamarlo e di salutarlo con più calma.
Poi provai a chiamare il numero di Leila Thackery. Lasciai squillare il telefono a lungo, ma non rispose nessuno. Mi chiesi quanto tempo avrebbe impiegato una torpedine controllata a risalire il Mississippi da Memphis a St. Louis.
Giunto al suo appartamento, cercai di chiamarla dal citofono. Di nuovo nessuna risposta. Così chiamai Mrs. Gluntz. Era sembrata la più amichevole delle tre intervistate per la mia indagine simulata sui consumi.
— Si.
— Sono di nuovo io, Mrs. Gluntz: Stephen Foster. Ho ancora un paio di domande da fare per la mia inchiesta, se potesse concedermi qualche minuto.
— D’accordo — disse. — Benissimo. Salga.
La porta si aprì ed entrai. Salii direttamente al quinto piano, inventando nel contempo le domande. Avevo progettato quella manovra il giorno precedente per prepararmi una facile via di ingresso, in caso di necessità impreviste. Per la maggior parte delle volte le mie precauzioni si rivelano superflue, ma in certi casi semplificano moltissimo le cose.
Cinque minuti ed una dozzina di domande dopo, ero ridisceso il secondo piano, e stavo suonando alla porta di Leila, aprendola poi con un paio di pezzetti di metallo il cui possesso è talvolta imbarazzante, se viene scoperto.
Mezzo minuto dopo, spalancai la porta e la richiusi dietro di me. Indossai un paio di guanti molto sottili che trovai arrotolati in un angolo di una tasca.
Lei giaceva sul pavimento, con il collo che formava un angolo molto innaturale. Una lampada era ancora accesa, anche se rovesciata su un fianco. La stanza in assoluto disordine, la roba sparsa un po’ dappertutto. Il cavo del telefono era stato strappato dal muro.
Un ronzio riempiva l’aria; ne cercai la fonte.
Vidi dove la piccola luce ammiccante si rifletteva sul muro, accesa… spenta… accesa… spenta…
Mi mossi rapidamente.
Era un caschetto di metallo, quarzo, porcellana, e vetro, rotolato su un angolo della sedia su cui mi ero seduto qualche ora prima. Lo stesso aggeggio che avevo visto da Dave non molto tempo prima, anche se ora mi sembrava fossero passati secoli. Uno strumento per rilevare la vicinanza del Boia. E, si sperava, per controllarlo.
Lo presi e me lo adattai in testa.
Una volta, con l’aiuto di un telepate, avevo sfiorato la mente di un delfino mentre componeva canzoni oniriche da qualche parte nei Caraibi, esperienza talmente toccante che il suo stesso ricordo mi era spesso stato di grande conforto. Questa sensazione non era molto simile.
Analogie ed impressioni: un volto visto attraverso un vetro appannato; un sussurro in un luogo rumoroso; un massaggio cranico con un vibratore elettrico; The Scream di Edvard Munch; la voce di Yma Sumach, che saliva sempre più di tono; la scomparsa della nave; una strada deserta, illuminata come attraverso un caleidoscopio che avevo visto una volta; un’immensa sensazione di possanza fisica, composta da una consapevolezza estremamente lucida di forza enorme; una raggerà particolare di canali sensoriali, un sole centrale imperituro che mi alimentava di un flusso energetico costante, una visione mnemonica di acque oscure, fluenti, luminose, la necessità di tornare in quel posto, riorientarsi, trasferirsi verso nord; Munch e Sumac, Munch e Sumac, Munch e Sumac… Nulla.
Silenzio.
Il ronzio era terminato, la luce si era spenta. L’intera esperienza era durata solo pochi attimi. Non c’era stato tempo sufficiente per tentare una qualsiasi forma di controllo, anche se un’impressione residua affine al biofeeback mi lasciava intravvedere la direzione da prendere, il modo in cui pensare, per raggiungerlo. Sentivo che per me poteva essere possibile elaborare la cosa, avendo una possibilità migliore.
Togliendomi l’elmetto, mi avvicinai a Leila.
Mi inginocchiai accanto a lei e feci alcune prove elementari, pur conoscendone già il risultato. In aggiunta al collo spezzato, aveva ricevuto alcuni brutti colpi sulla testa e sulle spalle. Non c’era più nulla da fare per lei, ormai.
Effettuai allora un veloce controllo del suo appartamento. Non c’erano segni evidenti di scasso ed ingresso violento, anche se chiunque volendo, avrebbe potuto entrare con la mia stessa velocità.
Trovai della carta ed un cordino e nascosi l’elmetto in un pacco. Era giunto il momento di richiamare Don, di dirgli che la capsula era stata davvero occupata e che il traffico fluviale era probabilmente difficoltoso nel settore diretto verso Nord.
Don mi disse di portare l’elmetto nel Wisconsin, dove all’aeroporto mi sarebbe venuto incontro un uomo di nome Larry, che mi avrebbe condotto in un luogo riservato. Eseguii, e tutto avvenne regolarmente.
Appresi anche, senza restare particolarmente sorpreso, che David Fentris era morto.
La temperatura era scesa, e cominciò a nevicare lungo il percorso. Non ero vestito adeguatamente per l’inverno. Larry mi disse che potevo trovare degli abiti più caldi quando avessimo raggiunto il rifugio, anche se probabilmente non avrei avuto bisogno di stare molto fuori. Don aveva detto loro che avrei dovuto rimanere il più vicino possibile al Senatore e che le truppe le avrebbero comandate loro quattro.
Larry era curioso di sapere che cosa era accaduto in realtà fino a quel momento, e se io avessi visto effettivamente il Boia. Non pensai che spettasse a me informarlo su cose che Don non gli aveva detto, così fui un po’ confuso. Non parlammo molto, dopo quel momento.
Bert ci venne incontro appena atterrammo. Tom e Clay erano all’esterno dell’edificio, e controllavano le zone circostanti. Erano tutti di mezza età, e dall’aspetto molto efficiente, molto serio, ed armati di tutto punto. Larry mi portò dentro e mi presentò all’anziano gentiluomo.
Il Senatore Brockden era seduto su di una sedia imponente nell’angolo opposto della stanza. A giudicare dall’aspetto sembrava che la sedia avesse occupato di recente una posizione accanto alla finestra nella parete opposta dove un vaso pieno di fiori gialli si stagliava solitario. Il Senatore mi osservò e mi squadrò con estrema attenzione. Mentre ci avvicinavamo il suo volto rimase perfettamente impassibile. I suoi occhi erano pallidi e cerchiati.
Non si alzò.
— Così è lei — disse, porgendomi la mano. — Sono felice di conoscerla. Come devo chiamarla?
— John andrà benissimo — dissi.
Fece un piccolo cenno a Larry che uscì dalla stanza.
— Fa freddo là fuori. Si versi da bere, John. È sullo scaffale. — Indicò un punto alla sua sinistra. — E già che c’è mi porti un bicchiere. Due dita di bourbon in un bicchier d’acqua. È tutto.
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