La figura di Dio si fa più imponente, imperiosa: il mento, le guance, tutti i lineamenti si appesantiscono; la voce diventa profonda e sonora. Quando entra in un luogo pubblico, tutti si voltano: in ogni compagnia è lui ad emergere; quando esplode la sua risata, tutta la tavola ride con lui.
Le donne impazziscono per lui: ubriaco e trionfante, a volte si allontana barcollando con una di loro, sotto lo sguardo di Claire. Ma lei sola conosce la sconfitta, le lacrime e le parole spezzate nelle veglie insonni della notte.
C’è un intervallo in cui il tempo sembra fermarsi nel quale essi sembrano dimenticare ogni ansia ed ogni scopo, come se avessero raggiunto il punto più alto. Poi Dio comincia di nuovo a cambiare, con rapidità sempre maggiore. Sono come i passeggeri di due marciapiedi mobili che per un breve tratto hanno viaggiato affiancati, ma le cui strade cominciano ora a divergere.
Claire si aggrappa a lui disperatamente, con un senso di vertigine. È terrorizzata da quel movimento inesorabile, possente, che la sta allontanando: al pari di lui, si sente trascinata verso una destinazione ignota.
E all’improvviso arrivano i giorni più brutti. Dio sta cambiando sotto i suoi occhi. La pelle diventa flaccida e opaca: il naso diviene ancora più camuso. Lui dedica molto tempo all’esercizio fisico, sotto la guida di Benarra: quando cominciano a spuntare i primi capelli bianchi, lui se li tinge. Ma le rughe intorno alla bocca e agli occhi si fanno più profonde. Le ossa si deformano. Claire non riesce a sopportare la vista delle sue mani, così goffe e rigonfie; riescono a trattenere ciò che afferrano, ma paiono ugualmente annaspare.
Claire è colta da crisi improvvise, e sempre più spesso scoppia in lacrime. È dimagrita, dorme male e ha perso l’appetito. Passa la maggior parte del tempo in biblioteca, studiando quei pensieri alieni che soli le permettono di rimanere in contatto con Dio. Un giorno, uscendo a prendere una boccata d’aria, incontra Katha per strada, e Katha non la riconosce.
Lei si ferma, stupita, e rimane immobile accanto alla balaustra del piccolo ponte di pietra. Le facciate delle case sono come visi spenti che sembrano piangere alla luce plumbea che cade dal soffitto. Sotto di lei, sulla lunga teoria di scale, la piccola testa bruna di Katha ondeggia fra la folla e scompare.
La gente sta diminuendo: in questa stagione non c’è nemmeno la metà della folla che c’era in quella precedente. Quelli che arrivano sono silenziosi ed infelici e non si fermano a lungo. Solo poche miglia più in là, nel Settore Diciannove, è tutto uno sventolio di bandiere, un pulsare di musica; le luci scintillano, la gente ride e si muove rapida. Qui, tutto è grigio. Ogni superficie è arrotondata, come levigata dal mare; qui manca una colonnina, là è caduto un mattone; qui, da una nicchia malandata, spunta una statua deforme che scruta con un malevolo viso di terracotta. Lei rabbrividisce, distoglie lo sguardo e si incammina.
Un suono malinconico si leva dalla strada, riempiendo l’aria. Il silenzio palpita, poi il suono riprende. È il rintocco della grande campana, ovvero l’ultima follia di Dio, l’edificio che lui chiama «cattedrale». È un vasto luogo chiuso, privo di bellezza e di una specifica funzione. Nessuno lo usa, neppure Dio. È uno spazio vuoto in attesa di essere riempito. Ad una delle estremità, su di una piattaforma, ardono alcune candele. Il pavimento di piastrelle è sempre lucido, come se fosse stato appena lavato; le ombre si allungano sulle pareti. I visitatori odono distintamente i loro passi riecheggiare quando camminano; si sentono a disagio e se ne vanno. Senza nessuna ragione, la campana suona ad intervalli regolari.
All’improvviso Claire si trova a pensare alla Baia di Napoli e ai bianchi gabbiani che si librano nel cielo: la freschezza, il forte odore dell’ozono e la luce diafana e accecante.
Mentre si volta per andarsene, vede sotto di sé due figure snelle, mano nella mano: un ragazzo e una ragazza, entrambi con una massa di capelli biondi. Appaiono isolati, e la folla si muove circondandoli lentamente con una progressione di volti che mutano in continuazione. Affiora un’immagine: Claire ricorda un altro pomeriggio, la strada, allora così diversa, e i due bambini con i capelli biondi. Ora essi sono quasi adulti, ancora pochi anni e saranno come tutti gli altri.
Claire prova una fitta al cuore. Pensa: se potessimo avere un bambino…
Guarda verso l’alto, in una sorta di incredula meraviglia per il fatto che al mondo ci sia tanto dolore. Da dove è venuto? Come ha potuto vivere per tanti decenni senza mai conoscerlo?
La luce plumbea ondeggia debolmente ma incessantemente lungo il nudo soffitto di pietra che la sovrasta.
Minuscolo come una formica vista a grande distanza, Dio dondola accanto alla spalla della gigantesca statua scolpita a metà. L’eco del martello giunge fino a Claire e Benarra che sono nel vano della porta.
È una figura femminile, seduta; questo è tutto ciò che ora riescono a distinguere. La testa priva di espressione, piegata verso il basso, sembra meditare: c’è qualcosa di maligno nell’informe curva della schiena e nelle robuste braccia non completamente delineate. Una nuvola di polvere avvolge la minuscola figura di Dio e il suo odore acre riempie l’aria; la polvere bianca ricopre ogni cosa.
— Dio — chiama Claire nel videocitofono. Il rumore distante del martello non accenna ad interrompersi. — Dio.
Dopo un momento, il rumore cessa. Lo schermo si illumina, e appare la faccia di Dio simile ad una maschera bianca. Solo negli occhi scuri c’è vita: essi ardono impazienti. I capelli, le sopracciglia e la barba sono bianche, come se lo scultore stesso fosse diventato di pietra.
— Sì, che c’è?
— Dio… andiamocene via per qualche settimana. Ho un tale desiderio di rivedere Napoli. Sai, sono passati molti anni.
— Vai tu — risponde la faccia. In lontananza vedono la piccola figura nera piegata vicino alla spalla gigantesca che volge loro la schiena. — Io ho troppo da fare.
— Un po’ di riposo ti farebbe bene — intervenne Benarra. — Te lo consiglio, Dio.
— Ho troppo da fare — ripete la faccia. L’immagine scompare, il ritmo lontano del martello riprende. La figura scura è di nuovo confusa nella nuvola di polvere.
Benarra scuote il capo. — Non serve. — Si voltano e si avvicinano alla balconata che si affaccia sullo scuro atrio di ingresso. Benarra dice: — Non volevo dirtelo proprio adesso. I Progettisti chiederanno a Dio di dimettersi dal suo incarico quest’anno.
— Lo temevo — risponde Claire dopo un momento. — Li hai avvertiti di come lui la prenderà?
— Dicono che il Settore diventerà un Luogo Evitato. Hanno ragione: la gente comincia già a sentirsi a disagio. Ancora qualche stagione e cesseranno del tutto di venire.
Claire apre e chiude le mani, irrequieta. — Non potrebbero darlo a lui, per un Progetto, o un museo, magari…? — Si interrompe: Benarra scuote la testa.
— Dovrà affrontarlo — dice — io l’ho previsto.
— Lo so — la voce di lei è piatta, mortificata. — Io lo aiuterò… farò tutto quello che potrò.
— Questo è proprio quello che non voglio che tu faccia — dice Benarra.
Lei si volta, sorpresa. Lui è in piedi, rigido e con lo sguardo severo, contro la ringhiera della balconata, con l’oscuro abisso dell’atrio sotto di sé. — Claire, sei tu che lo stai trattenendo. Si tinge i capelli per te, ma gli basta solo guardarsi quando viene qui nello studio per rendersi conto di come è in realtà. Lui si disprezza… finirà con l’odiarti. Tu devi andartene ora, e lascia che faccia quello che deve.
Per un attimo, lei non riesce a parlare, ha la gola indolenzita. — Che cosa deve fare?
— Deve invecchiare, molto in fretta. Ha cercato di rimandarlo finché ha potuto. — Benarra si volta a guardare l’atrio deserto. In un angolo, il vecchio drappeggio di stoffa è scivolato sul pavimento. — Vai a Napoli o a Timbuk. Non chiamare, non scrivere. Ora non puoi aiutarlo. Deve farlo da solo.
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