— Già, ma un computer quantico non esiste — obiettò Kyle.
— È vero — ammise Papineau. — Ancora non esiste. Ma un giorno o l’altro qualcuno lo costruirà e allora lo sapremo per certo.
Kyle e Heather cenavano insieme ogni lunedì sera.
Erano separati ormai da un anno. Non lo consideravano un distacco definitivo e non avevano mai parlato di divorzio. Sentivano solo il bisogno di un po’ di tempo, indispensabile a tutti e due, per rassegnarsi alla morte di Mary. Perché coi nervi a fior di pelle avevano cominciato a non sopportarsi più, a beccarsi di continuo, a farsi trascinare in liti furibonde da piccole cose assolutamente insignificanti, incapaci di consolarsi l’un l’altro, incapaci di comprendere perché fosse accaduto.
Non avevano mai saltato un lunedì, e sebbene la tensione fosse salita in seguito alla visita di Becky quattro giorni prima, Kyle confidava che Heather sarebbe venuta comunque all’appuntamento.
Attese dunque fuori del solito ristorante, godendosi la tiepida brezza della sera.
Verso le sei e quaranta, con dieci minuti di ritardo, il libratore blu cobalto di Heather fluttuò dentro il parcheggio.
Finora si erano sempre salutati, ogni lunedì sera da un anno a quella parte, con un bacio a fior di labbra, ma stavolta… stavolta esitarono entrambi. Kyle le tenne aperto il battente, ed entrarono nel ristorante.
Sebbene il locale fosse semivuoto, il cameriere cercò di farli accomodare accanto a un’altra coppia. Bene che andasse, Kyle detestava una sistemazione del genere, e stavolta non esitò a reclamare. — Ci sediamo laggiù — disse, indicando un angolo distante.
Il cameriere cedette e li accompagnò a un séparé in fondo. Kyle ordinò vino rosso; Heather un bicchiere di bianco della casa.
— Cominciavo a pensare che non saresti venuta — disse Kyle.
Heather annuì, ma rimase impassibile. — Scusa il ritardo.
Per un poco mantennero il silenzio.
— Non so proprio che cosa fare, per questa storia — tentò Kyle.
Heather distolse lo sguardo. — Nemmeno io. — Ti giuro…
— Per favore — lo zittì Heather. — Per favore.
Kyle assentì lentamente. Poi, dopo qualche esitazione: — Sabato sono andato a trovare Zack.
Un’ombra d’inquietudine parve calare sul volto di lei. — E allora?
— Allora niente. Cioè, non ci siamo presi a pugni. Abbiamo solo parlato un po’. Volevo convincerlo ad accompagnarmi al laboratorio di medicina legale, all’Università. Per sottopormi alla macchina della verità e dimostrargli la mia innocenza.
— E allora? — ripeté Heather.
— Ha rifiutato. — Kyle abbassò lo sguardo, poi lo rialzò, cercando gli occhi di Heather. — Potrei farlo anche per te, se vuoi. Ti dimostrerei che sono innocente.
Heather fece per aprire la bocca, ma la richiuse immediatamente.
Si trovavano a una svolta, a un momento cruciale. Kyle lo sapeva ed era certo che anche Heather se ne rendeva perfettamente conto. Il futuro dipendeva da quel che sarebbe accaduto adesso.
Heather doveva pensarci bene…
Se Kyle era innocente e lei gliene avesse chiesto la prova, non sarebbe mai riuscito a perdonarle la mancanza di fiducia. Se Kyle era innocente, il loro matrimonio sarebbe certamente sopravvissuto a quella crisi; ma se lei nutriva dei sospetti e li ammetteva, se ammetteva la possibilità di colpevolezza, sarebbe mai più stato capace di stringerla e di amarla come un tempo? Si era schierata o no al suo fianco, aveva o no creduto in lui, nel momento del maggior bisogno?
— No — decise infine Heather, chiudendo gli occhi. — No, non sarà necessario. — Poi, guardandolo: — Lo so già che non hai fatto niente.
Kyle cercò di rimanere impassibile, consapevole di come lei lo scrutasse in volto per comprendere se egli dubitava della sua sincerità.
— Grazie — disse, con un filo di voce.
Tornò il cameriere con le bevande. Ne approfittarono per ordinare petto di pollo alla griglia e patate al forno per Kyle; un quarto di pollo arrosto e patate fritte per Heather.
— Che altro è successo, con Zack? — volle sapere Heather.
Kyle bevve un sorso di vino. — Mi ha detto che Becky è in terapia.
Heather annuì. — Eh, già.
— Tu lo sapevi?
— Ha cominciato a vedere qualcuno dopo la morte di Mary.
— Lo stesso psicanalista da cui era andata Mary — aggiunse Kyle. — Me l’ha detto Zack.
— Anche Mary in terapia? Dio mio, non ne sapevo nulla.
— Io pure ci sono rimasto male — disse Kyle.
— Si sarebbe dovuta confidare con me.
— Oppure con me — aggiunse Kyle in tono deciso.
— Naturalmente — disse Heather. — Naturalmente. — Tacque un istante. — Mi chiedo se non ci fosse di mezzo la disgrazia di Rachel…
— Chi?
— Rachel Cohen. Ricordi? L’amica di Mary. Morta di leucemia quando Mary aveva diciott’anni.
— Ah, sì. Povera ragazza.
— Mary ne uscì davvero distrutta. Forse fu in seguito a quello che prese a vedere un analista… in cerca di un po’ di sollievo alla sofferenza della perdita, capisci?
— Allora perché non rivolgersi a te?
— Be’, non posso certo definirmi un’analista. Inoltre nessuna ragazza vorrebbe mettersi in terapia con sua madre… e dubito persino che avrebbe accettato di farsi consigliare un nome da me.
— Ma come avrà fatto, da sola, a trovare un analista?
— Non lo so — ammise Heather. — Magari sarà stato il dottor Redmond a suggerirle qualcuno. — Lloyd Redmond era il medico di Kyle da quasi trent’anni, e seguiva anche il resto della famiglia. — Domattina lo chiamo, potrei scoprire qualcosa.
Arrivò la cena. Mangiarono in silenzio, scambiandosi solo poche parole, poi ognuno rincasò per conto proprio.
Il telefono squillò nel laboratorio di Kyle alle dieci e trenta di martedì mattina. L’identitel rivelò trattarsi di Heather che chiamava dal suo ufficio di Sydney Smith Hall, lato ovest di St. George Street, un isolato più a sud.
— Avevo ragione — esordì Heather. — Fu proprio il dottor Redmond a consigliare a Mary un’analista, parecchi mesi prima che morisse.
— E chi sarebbe?
— Una certa Lydia Gurdjieff — rispose Heather, compitando quel cognome inconsueto.
— Mai sentita nominare?
— No. Ho consultato in rete l’annuario dei professionisti, ma non è elencata.
— Voglio andarla a trovare — propose Kyle.
— No, sarà meglio che ci vada io… da sola.
Kyle aprì la bocca per obiettare, poi si rese conto che sua moglie aveva ragione. Innanzitutto lui rappresentava il nemico, dal punto di vista di quella donna, e inoltre Heather, a differenza di lui, era un’esperta psicologa.
— Quando?
— Se possibile, oggi stesso.
— Grazie — disse Kyle.
— Buongiorno, signora Gurdjieff — disse Heather, entrando nello studio dell’analista. La carta da parati azzurra che rivestiva i muri si arricciava un poco lungo le giunzioni, rivelando la vecchia tintura sottostante. — La ringrazio d’avermi ricevuto.
— Piacere mio, signora Davis… o posso chiamarla Heather?
Heather non s’era data pena di adottare alcun particolare accorgimento per dissimulare la propria identità; aveva infatti conservato il suo cognome da nubile, mentre Mary e Becky portavano il cognome di Kyle. Non v’era quindi motivo di pensare che quella Gurdjieff potesse metterle in relazione. — Heather va benissimo.
— Allora, Heather, non capita spesso che mi annullino un appuntamento, ma oggi dev’essere il suo giorno fortunato. Prego, si sieda, oppure si accomodi sul divano, se preferisce.
Heather ci pensò un istante, poi, con un lieve gesto di noncuranza, si distese sul divano. A dispetto di tutta la sua preparazione in campo psicologico non aveva mai sperimentato il divano dell’analista e quella sembrava proprio la volta buona.
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