Sì, lo ammetto. La morte imminente ha un lato buono: ti fa diventare introspettivo. Come disse Samuel Johnson: “Quando uno sa che fra un paio di settimane verrà impiccato, raggiunge una meravigliosa concentrazione mentale”.
Sapevo perché contrastavo con tanta forza l’idea di un progetto intelligente, perché quasi tutti gli evoluzionisti lo contrastavano. Per più di un secolo avevamo combattuto contro i creazionisti, contro gli sciocchi convinti che la Terra fosse stata fatta nel 4004 a.C. in sei giorni di 24 ore; che i fossili, se pure avevano una qualche validità, erano i residui del diluvio universale; che un ingannevole Dio aveva creato l’universo con la luce delle stelle già en route verso di noi, dandoci l’illusione di grande distanza e di grande antichità.
Era opinione popolare che Thomas Henry Huxley aveva massacrato il vescovo “Sam l’untuoso” Wilberforce nel grande dibattito sulla evoluzione. E Clarence Darrow, così mi hanno insegnato, aveva seppellito William Jennings Bryan durante il processo Scopes. La battaglia però era soltanto iniziata, con loro. Continuavano a spuntarne altri, che vomitavano spazzatura sotto la maschera della cosiddetta scienza della creazione, che estromettevano dalle aule scolastiche la teoria evolutiva perfino al giorno d’oggi, perfino all’inizio del ventunesimo secolo, che cercavano d’imporre nella corrente principale un’interpretazione letterale, fondamentalista, della Bibbia.
Avevamo combattuto la battaglia buona, Stephen Jay Gould, Richard Dawkins e perfino io, in misura minore: non avevo l’abilità oratoria degli altri due, ma avevo affrontato in dibattito la mia parte di creazionisti al Royal Ontario Museum e all’università di Toronto. E vent’anni fa, Chris McGowan, dello stesso rom, aveva scritto un libro di prim’ordine, intitolato In the Beginning: A Scientist Shows Why the Creationists Are Wrong. Ricordo però che un mio amico, insegnante di filosofia, metteva in evidenza quanto fosse arrogante quel sottotitolo: un solo uomo avrebbe dimostrato perché tutti i creazionisti del mondo erano in errore. Forse però ci si potrebbe perdonare la mentalità da assediati. Sondaggi fatti negli Stati Uniti mostravano che perfino oggi meno di un quarto degli abitanti crede nell’evoluzione.
Ammettere che c’era stata un’intelligenza guida, in un punto del passato, avrebbe aperto le cateratte. Avevamo lottato così a lungo e così duramente (e alcuni di noi avevano subito anche la prigione per amore della causa) che riconoscere anche solo per un momento la possibilità di un progettista intelligente sarebbe equivalso ad alzare bandiera bianca. I media, ne eravamo sicuri, avrebbero avuto una giornata campale e l’ignoranza avrebbe regnato suprema.
Col senno di poi, forse avremmo dovuto avere maggiore apertura mentale, considerare altre possibilità, senza sorvolare prontamente i punti deboli della teoria darwiniana; ma il costo era sempre parso troppo alto.
I Forhilnor non erano creazionisti, ovviamente… non più di qualsiasi scienziato che accettasse il Big Bang, con il suo definito punto di creazione (una cosa che Einstein aveva trovato così contraria al buon senso da fare quello che considerava “l’errore più madornale” della sua vita, inventare le equazioni sulla relatività per evitare che l’universo avesse avuto un inizio).
E ora le cateratte erano aperte davvero! Ora ognuno, dovunque, parlava della creazione, del Big Bang, dei precedenti cicli di esistenza, della falsificazione delle costanti fondamentali, di progetto intelligente.
E si ammucchiavano le accuse contro evoluzionisti, biochimici, cosmologi, paleontologi: si sosteneva che noi sapessimo (o almeno sospettassimo) che forse era tutto vero e che avessimo nascosto deliberatamente la verità, respingendo studi su questi argomenti presentati alle riviste scientifiche e ridicolizzando chi aveva pubblicato simili idee sulla stampa popolare, bastonando chiunque sostenesse il principio cosmologico antropico, al pari degli illusi fondamentalisti creazionisti.
Naturalmente al rom giunse un diluvio di telefonate con la richiesta di intervistarmi… circa una ogni tre minuti, secondo i tabulati del centralino. Avevo detto a Dana, la segretaria del dipartimento, di non disturbarmi, a meno che a chiamare non fosse il Dalai Lama o il papa. Scherzavo, è ovvio, ma rappresentanti dell’uno e dell’altro telefonarono al rom nel giro di 24 ore dalle rivelazioni di Salbanda a Bruxelles.
Per quanto volessi tuffarmi pubblicamente nella mischia, non potevo. Non avevo tempo da sprecare.
Chino sulla scrivania, cercavo di mettere ordine nei documenti. Una richiesta dell’AMNH per una copia della mia relazione sul Nanshiungosaurus; una proposta di finanziamento per il dipartimento di paleobiologia, da approvare prima della fine della settimana; una lettera di uno studente che voleva diventare paleontologo e chiedeva consigli per la carriera; moduli d’assunzione per Dana; un invito a tenere una conferenza a Berlino; bozze della mia introduzione per il manuale di Danilova e Tamasaki; due articoli manoscritti per il “jvp”, che avevo accettato di giudicare; un modulo per richiedere che la maledetta illuminazione per il Camptosaurus nella Sala Dinosauri fosse aggiustata; una copia del mio libro, inviata per l’autografo; sette, no, otto lettere su altri argomenti, in attesa di risposta; il mio modulo per i rimborsi spese del quadrimestre precedente, da compilare; la bolletta delle interurbane del dipartimento, con le chiamate ancora da addebitare evidenziate in giallo.
Era troppo. Mi sedetti, accesi il computer, premetti l’icona della posta. Settantatré messaggi nuovi. Cristo, non avevo neppure il tempo di cominciare la lettura.
Proprio allora Dana sporse la testa nel mio ufficio. — Tom, mi serve l’approvazione per quei piani di ferie, davvero!
— Lo so — risposi. — La preparerò.
— Prima che puoi, per favore.
— Ho detto che la preparo! — sbottai, brusco.
Rimase sorpresa: non credo di essermi mai rivolto a lei in quel tono. Sparì nel corridoio, prima che potessi chiederle scusa.
Forse avrei dovuto solo annullare o delegare tutti i miei compiti amministrativi, ma se mi fossi dimesso da capo del dipartimento, di sicuro il mio successore avrebbe preteso di fare da guida a Hollus. E poi non potevo lasciare tutto in disordine; dovevo mettere a posto le cose, completare tutto ciò che potevo, prima di…
Prima di…
Sospirai, lasciai perdere il computer e guardai di nuovo la pila di carte sulla scrivania.
Non c’era tempo, maledizione! Non c’era tempo, tutto qui.
Moti impiegati non hanno idea di quanto guadagnino i loro capi, ma io sapevo al centesimo quanto Christine Dorati portava a casa. La legge nell’Ontario prevede che sia reso pubblico ogni stipendio per servizi civili superiore a centomila dollari canadesi all’anno; il rom aveva solo quattro dipendenti di quella categoria. Christine l’anno scorso aveva guadagnato 179.952 dollari, più altri 18.168 in indennità tassabili… e aveva un ufficio che rifletteva quello stato sociale. Malgrado le mie lamentele sul modo in cui Christine conduceva il museo, capivo che era necessario per lei un ufficio del genere. Doveva intrattenervi potenziali donatori, oltre che grossi parrucconi governativi in grado di aumentare o diminuire, per un semplice capriccio, il nostro bilancio.
Ero seduto in ufficio ad aspettare che le pillole analgesiche si decidessero a restarmi nello stomaco, quando avevo ricevuto la telefonata: Christine voleva vedermi. Fare due passi era u n buon modo per combattere la nausea, perciò andai nel suo ufficio.
— Ciao, Christine — dissi, quando Indira mi introdusse nello studio. — Volevi vedermi?
Christine in quel momento guardava qualcosa su Internet; alzò la mano per dirmi di pazientare ancora un momento. Magnifici arazzi erano appesi alle pareti. Dietro la scrivania c’era un’armatura; da quando la nostra Armour Court (che avevo sempre ritenuto una mostra piuttosto di successo) era stata annullata per fare posto a una delle tipiche “mostre omogeneizzate” di Christine, avevamo tante armature da non sapere che farcene. Nello studio c’era anche un piccione viaggiatore impagliato (il Centro biologico per la biodiversità e la conservazione… il ripostiglio buono per tutto, formato unendo i vecchi dipartimenti di ittiologia, erpetologia, mammalogia e ornitologia… ne aveva una ventina). C’era anche un gruppo di cristalli di quarzo, grande come un forno a microonde, ricuperato dalla vecchia sala di geologia; un magnifico Budda di giada grosso quasi quanto un pallone da basket; un canopo egiziano; e naturalmente un cranio di dinosauro… un calco in fibra di vetro di Lambeosaurus. La cresta a coltello sulla testa a becco d’anatra, a un capo della stanza, si armonizzava con l’ascia bipenne impugnata dall’armatura all’altro capo.
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