Come una tomba, pensò cupo Renault.
E come aveva detto la donna, i resti congelati di un braccio umano parzialmente decomposto erano visibili in fondo al buco, contorti, quasi scheletrici, anneriti dal tempo e dalla terra.
“Mio Dio,” bisbigliò Cicero. “Sai cosa è questo, Renault?
“Un corpo?” ipotizzò lui. Almeno sperava che il braccio fosse attaccato ad altro.
Il dottore prese a spiegare in fretta, gesticolando con le mani. “Nel 1880, esisteva un piccolo insediamento non lontano di qui, proprio sulle rive del Kolyma. Gli abitanti originali erano nomadi, ma man mano che il loro numero cresceva, decisero di costruire qui un villaggio. Poi successe l’impensabile. Un’epidemia di vaiolo li colpì, uccidendo il quaranta percento della loro tribù in pochi giorni. Pensarono che il fiume fosse maledetto, e i sopravvissuti scapparono in fretta.
“Ma prima di farlo, seppellirono i loro morti, proprio qui, in una fossa comune sulle rive del fiume Kolyma.” Indicò il buco, dov’era il braccio. “Ora le acque alluvionali stanno erodendo le rive. Lo scioglimento del permafrost presto scoprirà tutti i corpi, e basta che un animale locale li morda e diventi un portatore perché ci troviamo davanti a una nuova epidemia.”
Per un momento Renault si dimenticò di respirare, mentre guardava i ricercatori vestiti di giallo, in fondo alla fossa, che prelevavano campioni dal braccio in decomposizione. Era una scoperta davvero eccitante; fino a cinque mesi prima, l’ultima epidemia di vaiolo naturale di cui si avesse notizia era avvenuta in Somalia, nel 1977. La World Health Organization aveva dichiarato la malattia scomparsa nel 1980. E tuttavia loro erano letteralmente sull’orlo di una tomba che sapevano infetta del pericoloso virus. Era una malattia che avrebbe potuto decimare la popolazione di una grossa città nell’arco di giorni, e il loro incarico era di estrarlo, controllarlo, e mandarne dei campioni alla WHO.
“Ginevra dovrà confermarlo,” disse piano Cicero, “ma se la mia ipotesi è corretta, abbiamo appena disseppellito un ceppo di vaiolo vecchio di ottomila anni.”
“Ottomila?” ripeté Renault. “Pensavo che avesse detto che l’insediamento risaliva al tardo diciannovesimo secolo.”
“Ah, è così!” esclamò l’altro uomo. “Ma allora la domanda diventa, come hanno fatto loro, un’isolata tribù nomade, a contrarlo? In una maniera simile, immagino. Scavando nella terra e trovando per caso qualcosa di congelato da molto tempo. Il ceppo ritrovato nella carcassa scongelata del caribù cinque mesi fa risaliva all’inizio dell’epoca dell’Olocene.” L’anziano virologo non sembrava riuscire a togliere gli occhi dal braccio che spuntava dal terreno congelato. “Renault, prendi la scatola, per favore.”
Il giovane recuperò il contenitore d’acciaio per i campioni e lo appoggiò sulla terra gelata vicina alla fossa. Aprì i quattro ganci che lo sigillavano e sollevò il coperchio. All’interno, dove l’aveva conservata in precedenza, c’era una MAB PA-15. Era una pistola vecchia ma non troppo pesante, non raggiungeva neanche un chilo con il suo caricatore da quindici colpi più uno in canna.
L’arma era appartenuta a suo zio, un veterano dell’esercito francese che aveva combattuto a Maghreb e in Somalia. Tuttavia a Renault non piacevano le pistole; erano troppo dirette, troppo limitate e troppo artificiali per i suoi gusti. Non come un virus, una perfetta macchina della natura, capace di spazzare via intere specie, sistematico e acritico allo stesso tempo. Insensibile, irremovibile e rapido; tutto ciò che doveva essere lui in quel momento
Infilò la mano dentro la scatola d’acciaio e la chiuse attorno alla pistola, ma ebbe un leggero tentennamento. Non voleva usarla. In effetti, si era affezionato molto all’ottimismo contagioso di Cicero, e alla luce negli occhi dell’anziano dottore.
Ma tutto ha un fine , pensò. La prossima esperienza aspetta .
Renault si erse con l’arma in pugno. Tolse la sicura e sparò spassionatamente ai due ricercatori su ciascun lato della fossa, diritto nel petto.
La dottoressa Bradlee emise uno strillo spaventato al rimbombo improvviso e scioccante della pistola. Indietreggiò goffamente riuscendo a fare due passi, ma poi Renault l’abbatté con due colpi. Il dottore inglese, Scott, tentò con poca fortuna di uscire dal buco prima che il francese lo trasformasse nella sua tomba con un singolo colpo alla sua testa.
Gli spari furono tonanti, assordanti, ma non c’era nessuno nel raggio di chilometri che potesse sentirli. Quasi nessuno.
Cicero era rimasto bloccato al suo posto, paralizzato dalla shock e dalla paura. A Renault erano serviti solo sette secondi per mettere fine a quattro vite, solo sette secondi perché la spedizione di ricerca diventasse un omicidio di massa.
Le labbra dell’anziano dottore tremarono dietro il suo respiratore mentre cercava di parlare. Alla fine balbettò una sola parola: “Pe-perché?”
Lo sguardo gelido di Renault era stoico, distaccato come avrebbe dovuto essere quello di qualsiasi virologo. “Dottore,” disse piano, “sta iperventilando. Rimuova il respiratore prima di svenire.”
Il respiro dell’altro uomo era laborioso e affannato, troppo rapido per la funzionalità del respiratore. Spostò lo sguardo dalla pistola nella mano di Renault, tenuta con semplicità lungo il fianco, alla fossa dove ormai il dottor Scott giaceva morto. “Io… io non posso,” balbettò. Se si fosse tolto la maschera avrebbe rischiato il contagio della malattia. “Renault, ti prego…”
“Il mio nome non è Renault,” disse il giovane uomo. “Io mi chiamo Cheval, Adrian Cheval. È esistito un Renault, uno studente universitario che era stato scelto per svolgere questo tirocinio. È morto ormai. Il curriculum e la tesi che ha letto erano le sue..”
Cicero sgranò ancora di più gli occhi iniettati di sangue. L’oscurità avanzava ai margini della sua visuale, minacciando di avvolgerlo e fargli perdere i sensi. “Io non… non capisco… perché?”
“Dottor Cicero, la prego. Rimuova il respiratore. Se deve morire, non preferirebbe farlo con una certa dignità? Alla luce del sole, invece che dietro una maschera? Se perderà i sensi, le assicuro che non si sveglierà mai più.”
Con dita lente e tremanti, lo scienziato afferrò lo stretto cappuccio giallo della tuta e lo abbassò sui capelli brizzolati. Poi prese il respiratore e la maschera e se li sfilò. Il sudore che gli aveva imperlato la fronte si raffreddò subito e si gelò.
“Voglio che sappia,” disse il giovane francese, Cheval, “che rispetto davvero lei e il suo lavoro, Cicero. Non trovo alcun piacere in questo.”
“Renault, o Cheval, chiunque tu sia, sii ragionevole.” Senza il respiratore, Cicero recuperò quanto bastava delle sue facoltà per supplicarlo. C’era solo un motivo per cui l’uomo davanti a lui stava compiendo un gesto tanto atroce. “Qualsiasi cosa stia progettando di fare con questo, ti prego, ripensaci. È molto pericoloso…”
Cheval sospirò. “Ne sono consapevole, dottore. Vede, ero veramente uno studente all’università di Stoccolma, e stavo davvero facendo un dottorato. Tuttavia l’anno scorso ho fatto un errore. Ho falsificato delle firme su un modulo di richiesta per ottenere i campioni di un raro enterovirus. Sono stato scoperto e mi hanno espulso.”
“Allora… lascia che ti aiuti,” lo supplicò l’altro. “I-io posso firmare una richiesta di quel tipo. Posso aiutarti con le tue ricerche. Qualsiasi cosa tranne…”
“Ricerche,” ripeté piano Cheval. “No, dottore. Non sono le ricerche a interessarmi. La mia gente sta aspettando, e non sono persone pazienti.”
Gli occhi di Cicero si riempirono di lacrime. “Non verrà niente di buono da questo. Lo sai.”
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