Leif Davidsen - Quando il ghiaccio si scioglie

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Peter Lime, danese, professione fotografo, è felicemente sposato e dirige una fiorente agenzia. Durante un appostamento per un servizio scandalistico, scatta di nascosto una serie di foto compromettenti a un ministro del governo spagnolo impegnato in calde effusioni con una giovane starlette televisiva. E’ l’inizio di un’allucinante spirale di misteri e violenza che lo risucchia senza possibilità di scampo. La chiave è forse nascosta in un’altra immagine, scattata vent’anni prima e nell’identità misteriosa della donna che vi è ritratta.

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«Sì e no» risposi.

«È fantastica!»

«Non direi. È sottoesposta, e la composizione non è granché.»

Rise.

«Non mi riferivo alle qualità artistiche della foto, Peter. Ma al soggetto. Ci sarà molto utile.» Rise ancora scuotendo il bel capo riccio al pensiero della mia ingenuità e, forse, della mia vanità.

In quel momento non mi chiesi a chi e a che cosa sarebbe servita la mia foto. Mi beavo della sua risata e della sua espressione. Poi, senza rifletterci, proposi:

«Visto che ti ho reso un bel servizio, ti toccherà accettare un mio invito a pranzo o a cena».

Mi guardò. Aveva delle piccole, graziose rughe vicino agli occhi e una fossetta quasi impercettibile sopra il labbro superiore. Desiderai averla tutta per me in studio a Madrid, per farla sedere davanti al mio obbiettivo nella luce morbida del pomeriggio.

«Accetto volentieri. Foto o non foto sono contenta che tu me l’abbia chiesto» disse dopo qualche istante. «Ma prima dobbiamo parlare un po’ più a fondo della comune in cui abitavi, poi torneremo sulla faccenda che ti sta più a cuore.»

«Vuoi ancora caffè?» domandai.

«Non restiamo qui. Preferirei che venissi con me giù a Borups Allé. Voglio sentire di nuovo tutta la storia, in modo particolareggiato e in circostanze più ufficiali.»

«E perché?»

«Borups Allé, Peter.»

«Devo vedere un vecchio amico verso le undici.»

«Posso prendere le foto?» mi chiese.

«Certo.»

«Grazie» disse lei alzandosi.

«Allora, quando ci vediamo?» domandai sentendomi un adolescente al primo appuntamento.

«Oggi pomeriggio, se puoi.»

«E la cena?» rilanciai.

«Ne riparliamo in ufficio.»

«Borups Allé. Devo dire così al tassista?» domandai.

Lei rise di nuovo.

«Peter. E la centrale di polizia di Bellahøj. È lì che hanno sede i servizi segreti. Non siamo mica in Spagna o in Russia: in Danimarca i servizi segreti sono sull’elenco del telefono. Chiedi di me all’ingresso.»

«Sull’elenco del telefono? Che paese meraviglioso!» dissi facendola ridere ancora.

16

La sede del telegiornale era un basso edificio di cemento all’ombra di un cartello con la scritta: Città della TV. Klaus mi aspettava dietro la doppia porta a vetri. Più che una redazione sembrava il quartier generale dei servizi segreti. La reception era stata smantellata, e lo spettacolo della scrivania deserta faceva pensare che i visitatori non fossero graditi. Ci salutammo con una stretta di mano.

«E questa sarebbe la sede di un telegiornale?» scherzai.

«Scrivi una lettera di protesta al direttore» ribatté Klaus con una risatina. «Non saresti il primo. Dai, vieni di sopra.»

Gli uffici erano tante piccole gabbie di vetro allineate. A quell’ora la redazione era tranquilla, i giornalisti al telefono oppure in giro a far riprese. Sulla scrivania di Klaus campeggiava un computer circondato dal disordine organizzato tipico dei giornalisti: quotidiani, ritagli, riviste e videocassette. Le immagini della CNN scorrevano mute su un televisore fissato al soffitto. Spostò una pila di giornali liberando una bassa poltroncina e mi pregò di sedermi. Uscì dallo stanzino e poco dopo riapparve con in mano un bicchiere di plastica colmo di caffè, si sedette sulla sedia girevole e mi sorrise. Dapprima chiacchierammo del più e del meno. Colleghi e amici comuni, lavoro. Poi gli raccontai di Lola e di dove l’avevo conosciuta. Prese appunti e mi chiese se sarei stato disposto a farmi intervistare se avessero deciso di approfondire il caso. Accettai, un po’ perplesso sull’interesse che quei dettagli avrebbero potuto rivestire per il pubblico. Riconobbe che l’attenzione per quella vicenda era destinata a calare, a meno che, naturalmente, Laila o Lola non venisse acciuffata. Chiesi di sapere come avessero scoperto che le sue referenze e i titoli di studio erano inventati. Frugò nel caos della sua scrivania e mi porse una cartellina di plastica piena di ritagli di giornali.

«È tutto qui dentro, Peter» disse. «È stato un giornalista del “Jyllands-Posten”, tale Jørgensen, con qualche banale telefonata. Ha intervistato Laila, o come cavolo si chiama, ma quando le ha fatto qualche domanda puntuale sul suo soggiorno a Mosca, la stronza gli è parsa evasiva. Alla fine si è addirittura incazzata. Jørgensen conosce il russo e ama tutte quelle cazzate sullo spirito russo eccetera, eccetera, allora, s’è impuntato, poi si è insospettito. C’erano cose che lei avrebbe dovuto sapere, persone che avrebbe dovuto conoscere i cui nomi evidentemente non le dicevano niente. In seguito, quando il mio collega le ha letto l’intervista, Laila ha diffidato “Jyllands-Posten” dal pubblicarla. Perché l’autore lasciava intendere che la sua conoscenza dell’arte contemporanea russa fosse piuttosto carente. In questi casi, sai come funziona, il sospetto che l’intervistato abbia qualcosa da nascondere diventa certezza, e scattano le indagini vere e proprie.»

A quel punto Klaus si alzò per andare a una riunione, mentre io rimasi a leggere gli articoli su Lola. I ritagli erano raccolti in ordine cronologico. Lola era stata assunta poco prima che la sede del nuovo museo venisse ultimata. La notizia aveva destato grande meraviglia negli ambienti artistici danesi. Ma il ministro della cultura era entusiasta del fatto che la prescelta fosse un outsider , e donna, per di più.

Del resto Lola vantava un curriculum di tutto rispetto: studi alla Sorbona, all’Accademia di Belle Arti di Mosca e a quella di Londra. Era stata contitolare di una prestigiosa galleria di New York, e aveva conoscenze influenti nell’ambiente artistico internazionale. Notai che aveva mentito sull’età, togliendosi un paio di anni. Sosteneva di essere figlia di una danese e di un lord inglese. Non aveva avuto figli dall’ex marito, l’artista russo Petrov. Questi era morto prematuramente a San Pietroburgo, in circostanze che Lola aveva declinato di specificare. Si era limitata a commentare che il materialismo della nuova Russia aveva messo a dura prova il suo sensibile animo d’artista. C’era di che farsi venire i lucciconi agli occhi. I due avevano divorziato nel 1987.

Nelle foto Lola appariva attraente, di un’eleganza fra il classico e il démodé che ricordava lo stile di Grace Kelly. Il suo danese era, stando ai giornalisti che l’avevano intervistata, raffinato, punteggiato di termini desueti. In un paio di immagini la si vedeva accanto a qualche uomo politico un po’ attempato e stretto in una giacca troppo piccola, intento a fissarla ammirato. Inizialmente la stampa locale era stata generosa con Lola. Ma dopo la mostra inaugurale erano arrivate le prime note negative. Una conferenza all’Accademia di Belle Arti si era trasformata in una farsa perché, secondo gli organizzatori, la Petrova non conosceva la propria materia. Il fondo cassa viaggi era in rosso. Erano stati richiesti stanziamenti straordinari. Alcuni dipendenti si erano licenziati.

Lola si era difesa, dichiarando di essere vittima dell’invidia e dello snobismo tipico dei danesi, sempre pronti a censurare le persone intraprendenti a colpi di «chi ti credi di essere?».

Infine era arrivato il momento della verità. Un pezzo in prima pagina del «Jyllands-Posten» raccontava che Laila Petrova aveva mentito. Le sue referenze, che nessuno si era preso la briga di verificare, erano false. L’articolo, molto efficace e ben scritto, raccontava come il responsabile delle pagine culturali di «Le Monde» avesse negato di aver mai annoverato una Laila Petrova fra i suoi collaboratori. La stessa risposta era emersa da altre telefonate a Londra, New York e Mosca. Laila Petrova pareva essersi effettivamente mossa in ambienti attigui al mondo dell’arte, alcuni personaggi avevano addirittura speso parole d’elogio sul suo conto, ma nessuno era in grado di confermare e documentare le tappe del suo iter accademico e professionale. Aveva menato per il naso un sacco di gente, forse contando sul fatto che anche chi non sa nulla di arte contemporanea (la stragrande maggioranza delle persone, in ogni tipo d’ambiente) di solito finge volentieri di intendersi dell’argomento. Lola era stata spudorata, aveva scommesso e aveva vinto. Non riuscii a trattenere una risata. In un contesto nel quale il confine fra ciò che è sublime e ciò che non merita la definizione di “arte” è effimero e inafferrabile come un fiocco di neve, il talento istrionico di Lola aveva dato frutti straordinari.

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