Dopo la danese l’agenzia aveva mandato solo messicane. Brave lavoratrici, per la gran parte, e generalmente oneste, anche se Mildred teneva gli occhi aperti. Alcune parlavano inglese, altre no. Restava comunque un problema loro. Mildred si rifiutava di imparare lo spagnolo, le bastavano inglese e francese, grazie tante. All’orfanotrofio la signorina Hammock aveva puntato tutto su inglese e francese e per ottant’anni le sue diplomate avevano prestato servizio nelle più rinomate famiglie di Gran Bretagna e del Continente.
Le messicane non erano brutta gente, ma erano quelle che duravano di meno. Avevano sempre da correre in Messico per qualche crisi familiare, figli, mariti, fidanzati, Ognissanti… e chi riusciva a tenere a mente tutte quelle festività cattoliche? Mildred avrebbe preferito giovani donne propriamente istruite e timorose di Dio. Ma si fa buon viso…
Sapeva bene dov’era il problema: non c’erano più orfanotrofi. Tutti quei bambini strappati dall’utero o assegnati dall’assistenza sociale a certe incapaci sciattone. Bastava leggere il giornale.
Era finita l’epoca delle ragazze messicane. Non ce n’era più bisogno. Né di loro né di altre.
Mildred aveva settantatré anni e si chiedeva se sarebbe vissuta abbastanza da vedere con i propri occhi il crollo totale di tutto ciò che era razionale e giusto.
Non che si aspettasse di togliere l’incomodo molto presto. Tolta l’artrite, si sentiva in gamba. Ma non si può mai dire. Guarda cos’era successo alla padrona. Una donna così bella, la donna più raffinata che Mildred avesse mai conosciuto sull’una o l’altra sponda dell’oceano. Non una sola parola scortese che fosse mai uscita da quelle labbra, e quanta pazienza, e il Signore sapeva quanto spesso era stata necessaria vivendo con lui.
Guardala adesso… Al solo pensarci, Mildred provò un senso di debolezza agli occhi.
La caffettiera fischiò. Puntuale. Mildred versò il caffè della padrona in una caraffa vittoriana. Estetica un po’ pesante, probabilmente un regalo di qualche ospite a cena. La caraffa bella, la Hester Bateman, non c’era più. Giorgio III, un’annata eccezionale, con tutti i marchi di garanzia e autenticità del caso. L’aveva portata lui a casa di ritorno da uno dei suoi viaggi a Londra, acquistata in un negozio di prima classe in Mount Street. Ora forse qualcuno l’aveva relegata in una vetrinetta. La padrona era dell’idea che gli oggetti preziosi andassero usati. Lei ne aveva fatto il suo bricco della prima colazione.
Fino a quattro anni prima.
Scatoloni di argenteria, quadri, persino gli abiti da sera, tutto imballato come… verdure.
Appena assunta, Mildred aveva avuto paura di toccare i tesori della padrona, non voleva rovinare qualcosa. Già allora sapeva riconoscere la qualità.
E la padrona a quei tempi era giusto una ragazza, ma già così adulta, capace di trovare le parole giuste per metterla a suo agio. Questa è una casa, cara, non un museo.
E gran bella casa gli aveva messo a disposizione.
La luce s’insinuò fra i rami del contorto sicomoro secolare sulla terrazza della prima colazione, filtrò dalla finestra della cucina e si posò sulle mani recalcitranti di Mildred.
Nodose quanto l’albero. Ma il sicomoro buttava germogli verdi tutti gli anni.
Mildred scosse la testa e guardò il pavimento che aveva bisogno di essere lavato. Che distesa. Che locale enorme… Non che l’ultima ragazza le fosse stata d’aiuto. Come si chiamava già? Rosa, Rosita. Assunta da tre mesi e già a fare la cascamorta con uno dei ragazzi del giardiniere. Mildred era stata costretta a richiamare l’agenzia.
Pronto, signor Sanchez.
Salve, signorina Board. Che cosa posso fare per lei oggi?
Allegro, no? Certo, un’altra commissione in vista.
Mildred aveva fissato tre colloqui, poi la padrona gliel’aveva detto.
Ma abbiamo veramente bisogno di qualcun altro, Mildred. Siamo solo tu e io, in fondo usiamo giusto la cucina e le nostre stanze.
Sforzandosi di non farlo sembrare, ma trattenendo le lacrime. Mildred capiva. Aveva imballato l’argenteria e i quadri e i vestiti da sera.
Dunque così era finita. Dopo averlo sopportato per tutti quegli anni, ecco che cosa le lasciava.
Quel suo caratteraccio. Senza dubbio ne aveva affrettato la morte. Pressione alta, l’ictus quando era ancora giovane. Aveva lasciato la padrona sola in quel modo, povera colomba, sebbene l’avesse sistemata economicamente, su questo niente da ridire.
O così Mildred aveva pensato. Poi, quattro anni fa, il cambiamento.
Le camere svuotate e chiuse a chiave.
Niente più giovani messicane.
La cura del giardino che passava da quotidiana a bisettimanale, poi solo settimanale. Infine un rachitico giovincello a lottare contro ottomila metri quadrati di terreno con risultati rapidamente declinanti. I giardini sono come i figli, richiedono un occhio di falco se non vuoi che crescano delinquenti.
L’invidiato giardino della padrona era degradato a una mesta brughiera disordinata, prati a tratti rinsecchiti, pieni di macchie e falciati irregolarmente, siepi non potate che si erano gonfiate in cespugli incolti, alberi carichi di rami morti, aiuole invase dalle erbacce, la vasca dei pesci svuotata.
Mildred ce la metteva tutta, ma le mani la ostacolavano.
La padrona se n’era accorta? Raramente si avventurava fuori ormai. Forse era per quello. Non voleva vedere.
O forse non le importava. Non per via di quel… problema economico.
Perché Mildred era costretta ad ammettere che la padrona era cambiata molto tempo prima.
Quel terribile weekend a Lake Arrowhead. Poi lui. Una tragedia dopo l’altra. Non che la padrona si fosse mai lamentata. Forse sarebbe stato meglio se lo avesse fatto…
L’orologio ferroviario tedesco sopra il congelatore di sinistra suonò. Un altro degli oggetti che quegli individui adenoidei di Sotheby’s avevano rifiutato. Non che Mildred li biasimasse, era orribile. E disgustosamente impreciso. Quando segnava le nove sul quadrante, erano le otto e cinquantatré. Di lì a sette minuti Mildred avrebbe bussato con delicatezza alla camera da letto della padrona. Dall’altra parte delle tavole di mogano avrebbe udito la sua voce: «Entra pure, cara». In camera avrebbe posato il vassoio sul bureau, avrebbe sollevato la padrona a sedersi con convenevoli incoraggianti, avrebbe sprimacciato una montagna di cuscini, sarebbe andata a prendere il tavolino da letto di vimini, lo avrebbe sistemato con cura sul piumino e su di esso avrebbe disposto il servizio secondo le regole. Portatoast d’argento con triangoli extrasottili di pane di frumento appena abbrustolito; il caffè di quella miscela africana macinata al momento dell’acquisto in quel negozietto sull’Huntington Boulevard, ed era pur giusto concedersi un minimo di lusso! Ora decaffeinato, ma accompagnato da panna vera, densa abbastanza da rapprendersi per le focaccine; e che fatica trovarla! La confettura dorata che Mildred preparava ancora a mano, con zucchero di canna macinato fine e le poche arance amare che ancora riusciva a trovare in fondo al frutteto.
L’albero di arance amare stava morendo, ma produceva ancora qualche bel frutto. Se c’era una cosa buona della California era la frutta. A Mildred piaceva ancora passeggiare nel frutteto e cogliere frutti, fingendo che il terreno non fosse duro e accidentato, fingendo che le erbe aromatiche fossero verdi e fragranti, non quell’intrico di stoppie lungo le bordure.
Fingendo di essere ancora ragazza, in Inghilterra, in giro per le campagne dello Yorkshire. Dimenticando volutamente che in certi giorni, quasi tutti, si sentiva l’autostrada di Pasadena.
Frutta e clima. Le sole virtù per cui consigliare la California. Sebbene avesse trascorso la gran parte della sua vita a San Marino, Mildred lo considerava ancora un posto da barbari.
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