«L’atmosfera si è surriscaldata, Lisa ha cominciato a darmi spintoni, a colpirmi. Con la mano chiusa. Non era la prima volta. Io incassavo per via della differenza di taglia fra me e lei. Quella volta non lo feci. Non ho scusanti. Che cosa posso dire? Mi è scappata.»
Si guardò il pugno come stentando a credere che avesse provocato danni.
Petra ricordò la registrazione mandata in onda, l’occhio nero di Lisa, il labbro spaccato.
«Una volta sola?»
«Una volta sola», rispose lui. «Un’isolata, unica volta.» Scosse la testa. «Uno stupido momento di perdita di controllo ed è per sempre.»
Una descrizione che si adattava a qualsiasi omicidio.
«Mi sono sentito uno schifo, sudicio dentro, quando l’ho vista per terra. Ho cercato di aiutarla ad alzarsi, ma lei mi ha strillato in faccia di non toccarla. Ho provato a portarle un impacco di ghiaccio, ma lei non voleva avere niente a che fare con me. Così sono uscito verso lo stagno e quando sono rientrato la sua macchina non c’era più. È rimasta via quattro giorni. Durante quel periodo si è fatta intervistare per Inside Story. Ma a me non ha detto niente. Quand’è tornata a casa si è comportata come se andasse tutto bene. Poi, qualche giorno dopo, stavamo cenando e lei ha acceso la TV. Sorrideva. Siamo apparsi noi nella vasca da bagno e lei, con quel suo sorriso sulle labbra, mi dice: ‘La beffa dopo il danno, Cart. Non t’azzardare mai più’.»
Ramsey contemplò di nuovo la parte del suo corpo responsabile di quella disavventura, poi distese le dita. «Non l’ho mai più fatto… Io mi prendo qualcosa da bere. Sicura che lei non vuole?»
«Sì.»
Restò via qualche minuto e tornò con una lattina di Diet Sprite. Strappò la linguetta, si sedette e bevve.
«Mi ha detto che è andato allo stagno», gli ricordò Petra.
«Non mi pare di averne visto uno.»
«È perché eravamo all’altra nostra casa.» Nostra, non mia. Un’altra indicazione che lui non aveva tranciato tutti i legami. E nemmeno era involontariamente scivolato in espressioni distaccate, come accade talvolta agli assassini nel bel mezzo delle loro ricostruzioni cronologiche, quando cominciano con noi e passano a lei e io. Petra aveva letto su un rapporto dell’FBI che l’analisi del linguaggio offre spesso spunti rivelatori. Lei non ne era convinta, ma era di mente aperta.
Ramsey bevve un altro sorso, ora con un atteggiamento malinconico che sembrava sincero.
«La vostra altra casa?»
«Abbiamo un posto per i fine settimana a Montecito. Per la verità è più grande di qui. Una vera follia, quanto a spese per la manutenzione. Lì c’è un piccolo stagno dove mi piaceva andare a distendere i nervi.»
«Le piaceva?»
«Non ci vado più molto spesso. La solita vecchia storia con le seconde case. Ho sentito che accade anche ad altri.»
«Non vengono utilizzate?»
Lui annuì. «Uno pensa di essersi costruito un rifugio e piano piano diventa solo un’altra incombenza. L’errore è stato già all’inizio, quella casa era troppo grande. Dio solo sa se non è già grande questa.»
«Dunque lei non ci va spesso.»
«L’ultima volta dev’essere stato…» Alzò gli occhi al soffitto. «Saranno passati mesi.»
Il suo corpo ebbe un sussulto improvviso, quasi uno spasmo che gli fece riabbassare di scatto la testa e guardare diritto davanti a sé. I suoi occhi incontrarono quelli di Petra. Erano umidi. Se li asciugò alla svelta.
«L’ultima volta che ci sono stato con Lisa», dichiarò, «fu quella volta. Non ci siamo mai più tornati insieme. Qualche giorno dopo la messa in onda del programma se ne andò di nuovo e mi fece recapitare la richiesta di divorzio. Io credevo che ci avesse messo una pietra sopra.»
Petra si morsicò la lingua e pensò: il pestaggio era avvenuto a Montecito. Avrebbe chiamato Ron Banks per risparmiargli ulteriori inutili ricerche.
Ramsey si resse di nuovo il mento nella mano.
«La ringrazio», disse Petra. «Tutto questo mi è stato utile. Ora, se non le spiace, vorrei che parlassimo della notte in cui Lisa è stata assassinata.»
Mildred Board avrebbe voluto lavare il pavimento della cucina.
Anni fa non sarebbe trascorso un solo giorno senza che lo passasse. Un’incombenza di un’ora, nell’acqua insaponata fino ai gomiti dalle sei alle sette del mattino. Eccellente occasione per pensare senza la distrazione dello sciacquio o dei movimenti circolari delle filacce sul linoleum giallo.
Dopo che era cominciata l’artrosi, tutto quello sfregare carponi era diventato insostenibile e poteva dirsi fortunata se riusciva a lustrare quel pavimento una volta alla settimana.
Richiedeva attenzione anche il parquet in sala da pranzo. Il legno era scolorito, imbarcato e crepato in più punti, da tempo avrebbe avuto bisogno di un restauro.
Era visibile ogni singolo centimetro di assicelle; la sala da pranzo era vuota, tutti i mobili della padrona erano stati spediti a quei tizi di Sotheby’s a New York.
Avvertì una spiacevole tensione intorno agli occhi. Trasse un respiro e raddrizzò la schiena. «Si fa quel che si può», dichiarò con fermezza. Con fermezza e vigore. Nessuno che la potesse udire. La padrona era di sopra. C’erano tante altre stanze tra loro, tutte chiuse, tutte vuote.
La cucina, con i suoi vecchi mobiletti di ciliegio, i frigoriferi industriali e i tre forni, non avrebbe stonato in un albergo. Restavano stoviglie e posateria nonché il servizio di porcellana prediletto della padrona e qualche pezzo d’argento di valore sentimentale in dispensa. E la magnifica pressa per le lenzuola che quelli di Sotheby’s avevano detto di non aver nessuna speranza di piazzare. Ma gli oggetti veramente belli, i tesori che lui e la padrona avevano comperato in Europa, non c’erano più. Avevano fruttato bene, anche tolte la commissione d’asta e le tasse. Mildred aveva visto l’assegno, sapeva che tutto sarebbe andato per il meglio. Per un po’.
Lei e la padrona non avevano mai discusso la… situazione finanziaria. La padrona continuava a pagarla, aveva voluto assolutamente continuare a versarle il salario intero anche se il Signore sapeva quanto poco lo meritasse: a che cosa serviva in quelle condizioni?
Pensieri negativi. Via, via.
Notò una macchia di umidità sull’armadietto sotto il lavandino, trovò uno straccio, l’asciugò.
C’erano stati tempi in cui la cucina ferveva di attività. Era quando la padrona e lui intrattenevano in continuazione, andirivieni di fornitori, camerieri ansiosi, tegami a fumare, i piani di lavoro in acciaio inossidabile ricoperti di pietanze salate e di dolci. Non ultime fra questi ultimi le torte di Mildred. Di tutto ordinava all’esterno la padrona, ma non le torte, quelle erano di Mildred, in primo luogo la torta di prugne, quella di mele Dorset e quella di frutti di bosco. Le adorava lei, le adorava lui. Tutti le adoravano.
Mildred cucinava e faceva le pulizie nella grande casa da quarantun anni, era arrivata quando la padrona e lui ci vivevano da due. Anche allo chalet a Lake Arrowhead, ma i weekend al lago erano stati solo occasionali, anche quando lui era vivo, e spesso la padrona faceva venire gli operai di una ditta di pulizie a togliere i teli e a manutenzionare i rubinetti.
Erano più di dieci anni che nessuno usava più lo chalet. Nessuno c’era più andato dopo quel terribile fine settimana.
Mildred sospirò e si sprimacciò la capigliatura. Quarantun anni a lucidare l’argenteria, lavare con la schiuma le moquette, pulire quasi cento finestre, anche quelle di vetri colorati che aveva comperato lui e provenivano da una chiesa in Italia. Oh, la padrona le metteva sempre a disposizione un’altra ragazza, ma nessuna resisteva a lungo.
Per i primi dieci anni aveva avuto per compagna Anna Joslyn, quel povero scricciolo arrivato dall’Irlanda. Non del tutto a fuoco, quanto a cervello, ma ottima lavoratrice e forte come una cavalla da riproduzione. Poi quel donnone danese, così chiassoso e con quel seno così volgare. Quella non aveva funzionato affatto. Ah, che errore!
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