Fredric Brown - La statua che urla
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- Название:La statua che urla
- Автор:
- Издательство:Longanesi
- Жанр:
- Год:1953
- Город:Milano
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— Sì — rispose Sweeney.
— Io la conoscevo — affermò il ragazzino — le porto sempre il giornale. — Allungò la mano per aprire la porta. — Devo entrare per lasciare i giornali. — E Sweeney si scostò per lasciarlo passare. Quando il ragazzino uscì, Sweeney entrò nell’atrio e si fermò accanto alle cassette della posta. Proprio là dove stava ora, lei era caduta. Guardò in terra, poi si chinò per scrutare il pavimento da vicino: c’erano delle piccole macchie scure. Sweeney si rialzò e andò in fondo all’atrio ad aprire la porta che dava sul retro della casa: vi era solo un marciapiede di cemento che conduceva ai piani superiori: si accesero due lampade, una sopra di lui, in fondo alle scale, l’altra vicino alle cassette per la posta. La luce era fievole e gialliccia nel grigiore della mattina. Spense le lampade, poi, notando qualcosa sul pannello di legno della porta, le riaccese. Vi erano nel pannello delle profonde graffiature verticali, una vicina all’altra, e avevano tutta l’apparenza di zampate di un cane, oltre a essere fresche: come se la bestia si fosse lanciata contro la porta, cercando poi di graffiarla nella speranza di aprirsi una strada attraverso di essa.
Sweeney, spenta definitivamente la luce, uscì portandosi via uno dei giornali che il ragazzo aveva lasciato in pile ordinate sotto le cassette della posta. Quando ebbe voltato l’angolo della strada, sedette sul marciapiede e aprì il foglio. Vi era un articolo su tre colonne, con due fotografie, una della ragazza e una del cane, e il titolo diceva:
UNA BALLERINA AGGREDITA DALLO SQUARTATORE SALVATA DAL PROPRIO CANE LO SCONOSCIUTO SI È DATO ALLA FUGA. «NON SAPREI RICONOSCERLO» DICHIARA LA VITTIMA.
Sweeney osservò attentamente le fotografie, che erano delle pose, evidentemente destinate in origine alla pubblicità. Sotto il cane la didascalia diceva: DEMONIO, e Sweeney lo fissò a lungo: sul giornale era impossibile ritrovare il bagliore giallo di quegli occhi, ma appariva un animale che nessuno desidererebbe incontrare sulla propria strada. “Ha sempre l’aria di un lupo” pensò Sweeney “e di un lupo feroce.”
Ma i suoi occhi tornarono a osservare la donna. La dicitura IOLANDA LANG spinse Sweeney a domandarsi quale fosse il suo vero nome. Per quanto, guardando il suo ritratto, non ci si curasse più molto del suo nome; anche se, purtroppo, in quel ritratto non era visibile tutto ciò che Sweeney aveva potuto vedere la notte prima. Era un mezzobusto, e Iolanda Lang indossava un abito da sera senza spalline, che incorniciava e metteva in rilievo la sua bellezza, quella bellezza che Sweeney sapeva essere autentica e non frutto di vari trucchi, dai capelli biondi morbidi, con i riccioli che ricadevano sopra le spalle ancora più morbide. Anche il viso era affascinante. La notte prima Sweeney non aveva notato il viso. E non potrete criticarlo per questa piccola distrazione.
Comunque, anche il viso meritava di essere osservato, ora che non c’era niente altro a distoglierne l’attenzione: un volto dolcemente grave e gravemente dolce. In tutto, meno che in qualcosa intorno agli occhi. Ma un ritratto riprodotto in un giornale su tre colonne non permette di essere sicuri delle sfumature.
Sweeney ripiegò con cura il giornale e lo depose sul marciapiede: un lieve sorriso gli increspava le labbra. Si alzò e faticosamente tornò a Bughouse Square. Dio stava ancora russando sulla panca e aprì gli occhi cisposi, quando Sweeney lo scosse. Lo guardò dal basso e brontolò: — Va’ via.
Sweeney insisté. — Ci sono. Per questo sono venuto a dirtelo. Guarda, era questo che volevo dire.
— Che cosa?
— Quello di ieri sera — continuò Sweeney.
— Sei matto — rispose Dio.
Il sorrisetto riapparve sulla faccia di Sweeney. — Tu non l’hai vista, perché non c’eri, ieri sera. Saluti.
Attraversò il prato fino a Clark Street e si fermò. Aveva un mal di testa terribile e desiderava disperatamente qualcosa da bere. Stese una mano e la osservò tremare, poi se la infilò in tasca per non pensarci. Cominciò a percorrere Clark Street verso sud: il sole ormai era alto, invadendo le vie da est a ovest. Il traffico in aumento si andava facendo rumoroso e complicato.
Sweeney Che Cammina Nella Luce Del Giorno. Ancora quel pensiero. Sweeney sudava, e non solo per il caldo, ed emanava cattivo odore, lo sentiva benissimo. Gli facevano male i piedi ed era tutto uno sporco dolore, dentro e fuori, in cima e in fondo. Sweeney Che Cammina Nella Luce Del Giorno.
Attraversò il Loop, a sud fino alla Roosevelt Road: non osava fermarsi. Alla Roosevelt Road, girato l’angolo verso est, camminò fino all’ingresso di una casa-albergo e vi entrò. Suonò un campanello dei tanti posti in fila vicino all’ingresso e attese lo scatto della porta interna che veniva aperta. Salì tre piani di scale e giunse a una porta socchiusa, da cui sporgeva una testa calva. La faccia sotto la testa calva, quando scorse Sweeney spuntare dalle scale, ebbe una smorfia di disgusto e un secondo dopo la porta si chiudeva sbattendo. Sweeney continuò a salire sostenendosi al muro con una mano sporca e quando fu davanti alla porta prese a bussare energicamente. Continuò per un buon minuto, poi fu costretto a prendersi la fronte con le mani, abbandonandosi contro il muro. Si riprese dopo qualche istante e ricominciò a bussare più forte di prima. Qualcuno arrivò ciabattando vicino alla porta, all’interno. — Vattene all’inferno o chiamo la polizia.
Sweeney continuò a picchiare. — Chiamala, bellezza — gridò. — Andremo dal giudice e ci spiegheremo.
— Cosa diavolo vuoi?
— Apri — ripeté Sweeney, bussando ancora più forte.
Una porta nell’atrio si aprì e apparve la faccia sconvolta di una donna. Sweeney continuò a picchiare all’uscio, finché la voce dall’interno borbottò: — Va bene, va bene. Aspetta un secondo. — I passi si allontanarono, poi si riavvicinarono alla porta e finalmente la chiave girò nella toppa.
La porta si aprì e l’uomo calvo si tirò indietro. Indossava un informe accappatoio e delle pantofole scalcagnate e, a quanto pareva, niente altro. Era un poco più basso di Sweeney, ma teneva la mano destra in tasca e questa era stranamente gonfia. Sweeney entrò e richiuse con un calcio la porta dietro di sé. Avanzando fino al centro della stanza in disordine e girandosi intorno, disse dolcemente: — Ohi, Goetz.
L’uomo calvo stava ancora accanto alla porta. La sua risposta fu un brontolio: — Cosa diavolo vuoi?
— Venti dollari — replicò Sweeney. — Sai perché. O hai bisogno che te lo ripeta sillabando?
— Venti dollari un corno! Se credi che te li dia io! E se hai ancora in mente quella maledetta corsa e quel maledetto cavallo, te l’ho già detto che non ho potuto puntare la scommessa. Ti ho ridato i tuoi cinque dollari e tu li hai presi.
— Li ho presi in acconto — disse Sweeney. — Non avevo tanto bisogno di soldi da impuntarmici sopra. Adesso invece ne ho bisogno. Andiamo, su, ripetiamo tutta la storia. Tu mi hai gonfiato la testa con le tue chiacchiere su quella bestia, l’idea è stata tua. Alla fine io ti ho dato i cinque dollari per scommettere, il cavallo ha vinto per cinque a uno e tu sei saltato su a dirmi che non avevi potuto puntare per me.
— Dannazione, non ho potuto. Da Mike era già chiuso e la corsa era cominciata e…
— Tu da Mike non hai nemmeno provato a giocare. Ti sei semplicemente intascato i soldi della mia scommessa: se il cavallo avesse perduto, come tu ti aspettavi, ti sarebbe rimasta la puntata. Perciò, che tu abbia puntato o no i miei soldi, mi devi venti dollari.
— Va’ all’inferno. E va’ fuori di qui. — L’uomo calvo estrasse di tasca la mano che impugnava una piccola automatica calibro 25.
Sweeney scosse la testa con aria triste. — Se il gioco valesse ventimila dollari, avrei paura di quell’affare, forse. Ma per venti dollari non correresti mai il rischio di una sparatoria. Non vorresti certo avere i poliziotti a curiosare qui dentro per venti miserabili dollari. Per lo meno, io credo che non li vorresti: ci scommetterei su, anzi.
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