Fredric Brown - La statua che urla
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- Название:La statua che urla
- Автор:
- Издательство:Longanesi
- Жанр:
- Год:1953
- Город:Milano
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L’abito scivolò a terra, formando intorno ai piedi di lei un cerchio di seta bianca. Sotto il vestito la donna non indossava nulla, assolutamente nulla.
Per un tempo imprecisato, che parve durare eterni minuti e che forse non fu più di dieci secondi, niente e nessuno si mosse. Nulla accadde, tranne un lieve tremolio della torcia nelle mani dell’agente.
Poi le ginocchia della donna si ripiegarono sotto il peso e lei lentamente si abbandonò a terra, senza cadere, solo afflosciandosi come chi è troppo stanco per restare ancora in piedi, in mezzo al bianco cerchio di seta che le aveva fatto da piedestallo.
D’improvviso, allora, accaddero cento cose insieme. Prima di tutto, Sweeney riprese fiato. Poi Divisa Blu puntò con cura la rivoltella contro il cane e premette il grilletto. Il cane ebbe un sobbalzo, poi ricadde e giacque immobile nell’atrio, mentre Divisa Blu entrava, ordinando ad Abito Grigio: — Chiama l’ambulanza, Harry. E lega le gambe di quella maledetta bestia; non credo di averla ammazzata, dev’essere solo ferita.
A questo punto, Sweeney si ritrasse e nessuno gli prestò attenzione, mentre si allontanava verso nord al Delaware e voltava a ovest verso Bughouse Square.
Diomede non sedeva sulla panchina, ma non doveva essere lontano, perché la panchina era ancora vuota e nelle notti d’estate le panchine non restano vuote a lungo. Sweeney sedette ad aspettare il vecchio.
— Ehi, Sweeney — disse Dio, sedendo accanto a lui — ho preso un mezzo litro. Ne vuoi un sorso?
Era una domanda tanto sciocca, che Sweeney non si scompose nemmeno a rispondere, tranne che stendendo la mano. D’altronde, neanche Dio si era aspettato una risposta e già gli porgeva la bottiglia. Sweeney ne bevve una lunga sorsata.
— Grazie — disse. — Santi, se era bella, Dio. Era la più fantastica ragazza… — e bevve un altro sorso, più breve, prima di restituire la bottiglia. — Darei il braccio destro…
— Chi? — domandò Dio.
— La ragazza. Stavo andando giù per State Street e… — S’interruppe, comprendendo che gli sarebbe stato impossibile raccontare l’accaduto. — Lasciamo andare. Come hai fatto a trovare il whisky?
— Sono andato laggiù: te l’avevo detto che potevo benissimo trovar da bere, se proprio ne avessi avuto voglia. Prima invece non ne avevo voglia abbastanza. Si può ottenere tutto quel che si vuole, a patto che lo si voglia sul serio.
— Storie — rispose Sweeney, meccanicamente, poi improvvisamente rise. — Si può ottenere tutto?
— Qualunque cosa tu desideri — ripeté Dio, con tono dogmatico. — È la cosa più facile del mondo, Sweeney. Prendi i ricchi, per esempio: è la cosa più facile del mondo, e chiunque può diventare ricco. Tutto quel che è necessario è desiderare il denaro con tale violenza, in modo che esso acquisti per te maggior importanza di qualunque altra cosa. Tu concentri tutto sul denaro e lo ottieni. Se invece ci sono altre cose che desideri allo stesso tempo, non riesci ad averlo.
Sweeney sorrise: si sentiva leggero e in ottime condizioni. Quel lungo sorso era stato proprio quel che ci voleva. E voleva stuzzicare un po’ il vecchio sul suo argomento preferito.
— E con le donne? — chiese.
— Cosa significa con le donne? — Gli occhi di Dio erano torbidi perché stava ubriacandosi e nella sua pronuncia riaffiorava il dialetto bostoniano, come sempre quando era brillo. — Vorresti dire se puoi ottenere una certa donna che desideri in modo speciale?
— Sì — assentì Sweeney. — Immagina per un momento che ci sia una data ragazza con cui vorrei passare una notte. Potrei riuscirci?
— Se tu ne avessi veramente il desiderio, certo che potresti. E tanto più certo se tu punti su quell’unico obiettivo con tutti i tuoi sforzi. Perché non dovresti?
Sweeney rise di nuovo e appoggiò indietro la testa, a contemplare il verde cupo delle foglie d’albero sopra di lui. La risata si mutò in un sorriso ed egli, toltosi il cappello, prese a farsi vento. Scrutò il cappello come se non lo avesse mai visto prima e cominciò a spolverarlo con la manica della giacca e a ridargli la forma primitiva di cappello.
Dio dovette ripetere due volte la sua domanda, prima che egli lo udisse, tanto era assorto. Non che non fosse una domanda sciocca per cominciare il discorso e Dio non si aspettava neppure una risposta, a parole. Gli stava semplicemente porgendo la bottiglia. Ma Sweeney non la prese. Si rimise in testa il cappello e, alzandosi, ammiccò a Dio e lo ringraziò. — No, grazie, vecchio mio. Ho un appuntamento.
II
All’alba tutto appariva diverso, come sempre. Sweeney aprì gli occhi in una afosa, grigia alba silenziosa; le foglie pendevano senza vita dagli alberi sopra di lui e la terra su cui giaceva era dura, così che tutto il suo corpo ne dolorava. Aveva la bocca cattiva, che sembrava impastata con qualcosa di innominabile, innominabile nel libro, voglio dire, non per Sweeney. Egli infatti la nominò, poi si passò la lingua sulle labbra per inumidirle, inghiottendo più volte.
Si strofinò gli occhi con le mani sporche e tirò una bestemmia a un uccello che sull’albero vicino faceva un chiasso del diavolo. Si alzò a sedere, piegato in avanti, col viso tra le mani, pungendosi le dita con la barba ruvida. Un autocarro che passava per Clark Street fece un fracasso pari a quello di un terremoto, o della fine del mondo. Non di più, ma pari senz’altro.
Se svegliarsi non è mai piacevole, qualche volta riesce addirittura orribile. Quando si sono accumulate due settimane di sbornie, è orribile. Ma l’unico rimedio, come Sweeney sapeva benissimo, stava nel muoversi, senza restar seduto a soffrire, senza distendersi sul terreno duro e cercare di riaddormentarsi, perché in quello stato non si riesce a riaddormentarsi. Finché uno non riesce a orientarsi è un inferno completo, quando poi si è svegliato e orientato è un inferno per metà, fino a che non ci si riempie lo stomaco con un po’ di alcol. Allora tutto va bene. Cioè, bisogna chiederselo: va bene?
Sweeney respinse il terreno che sembrava trattenerlo a sé e si drizzò in piedi. Le gambe funzionavano, lo portarono fuori del prato, sull’asfalto, fino alla panchina, dove Diomede ancora dormiva tranquillo con un russare sommesso. Accanto a lui giaceva la bottiglia vuota.
Sweeney spinse indietro i piedi di Dio e sedette sull’orlo della panca. Appoggiando il mento pungente di barba sulle mani sporche, si chinò coi gomiti sulle ginocchia, ma non chiuse gli occhi. Riuscì a tenerli aperti, mentre si domandava se il peggio fosse ormai passato. La donna e il cane. Non aveva mai sofferto di allucinazioni fino ad allora.
La donna e il cane. Non poteva crederci. Era una di quelle pochissime cose che non possono accadere nella realtà. Perciò non era accaduta. Questa doveva essere la conclusione. Stese una mano davanti a sé per osservarla e vide che tremava notevolmente, ma non peggio delle altre volte. La riappoggiò sulla panchina e facendo leva sulle braccia riuscì ad alzarsi. Le gambe funzionavano ancora, se ne servì per attraversare la piazza e giungere a Dearborn Street e poi fino a Chicago Avenue. Più che un uomo era un dolore in cammino. I freni di un taxi stridettero nello scarto per evitare d’investirlo: attraversava la strada senza nemmeno guardare intorno, e l’autista gli urlò qualche improperio incomprensibile. Sweeney arrivò fino a State Street e proseguì in direzione sud. Percorse i tre quarti di un isolato e si trovò davanti al «portone». Si fermò a fissarlo intensamente, poi si accostò ai vetri e guardò nell’interno: era piuttosto buio, ma riusciva a vedere fino alla porta all’altra estremità dell’atrio.
Un piccolo strillone gli si fermò accanto, con la borsa dei giornali penzolante dalla spalla. — Ehi, è successo qui, vero? — domandò.
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