— Ti voglio, Matthew!… Ti voglio!…
Nel subconscio, Riggs percepì di nuovo l’inconfondibile accento della Georgia. Fu meno di una frazione di secondo. Aveva altro per la testa. I suoi scarponi da lavoro caddero sul pavimento in legno uno dopo l’altro, pantaloni e mutande vi si ammucchiarono sopra. Con un’ultima pedata alla cieca, Riggs riuscì a chiudere la porta di schianto. LuAnn si avvinghiò nuovamente con le gambe attorno a lui e lo guidò dentro di sé.
A Jackson non piaceva restare per troppo tempo con la stessa identità. La notte prima aveva lasciato l’albergo come Harry Conklin, e nemmeno una mezz’ora più tardi era rientrato nello stesso albergo sotto diverse spoglie. Un individuo corpulento sulla cinquantina, pesanti borse sotto gli occhi, naso largo, collo rugoso, lunghi capelli biondo-cenere legati in un treccia, berretto a visiera. Più o meno un hippy sul viale del tramonto dopo troppi spinelli. Gli avevano dato la stanza accanto a quella di Conklin. Non che facesse qualche differenza: tutte le stanze di quell’albergo erano uguali. Stessi mobili finto XVIII secolo, stessi tappeti ornati con immagini dell’America coloniale, stesse scene di caccia appese ai muri, stesse statue di legno che rappresentavano anatre o cinghiali sulla testata del letto. L’unico vantaggio dell’albergo era la sua posizione, quasi a metà strada tra Wicken’s Hunt e Charlottesville. Non aveva neppure aperto i bagagli, lo faceva di rado. Aveva imparato da parecchio tempo quanto fosse cruciale potersela squagliare in un batter d’occhi.
Ora stava studiando lo schermo del computer portatile, dove un’immagine prendeva progressivamente forma. Il volto di un uomo: l’uomo delle impronte digitali rimaste nel villino in mezzo alla foresta. L’immagine gli era trasmessa da uno dei molti collaboratori della sua rete, un individuo che poteva avere accesso ai più monumentali archivi di dati personali del pianeta. Era l’unica ragione per la quale Jackson lo aveva inserito nel suo apparato. Non c’era modo di sapere per certo se le impronte digitali dell’uomo che stava addosso a LuAnn Tyler si trovassero in qualche banca dati, ma valeva comunque la pena di tentare.
Jackson sorrise mentre l’immagine digitalizzata si andava completando, con tanto di estremi anagrafici dell’uomo a cui apparteneva: THOMAS J. DONOVAN.
La foto risaliva a tre anni prima, ma Donovan non poteva essere cambiato di molto. Jackson si concentrò sulla fisionomia di quel volto, tutto sommato anonimo. Con l’equipaggiamento del quale era dotato, sarebbe stato in grado di diventare anche Thomas J. Donovan, se fosse stato necessario.
Primo dato di fatto: il suo nome non gli era affatto sconosciuto. Soltanto un anno prima, Donovan, Premio Pulitzer del Washington Tribune , aveva scritto un approfondito articolo nel quale ricordava la carriera del padre di Jackson come senatore degli Stati Uniti. Un articolo insignificante, a suo parere, che ignorava completamente la vera personalità dell’uomo e la mostruosità del suo comportamento.
Secondo dato di fatto: il suo intuito, ancora una volta, non lo aveva tradito. Non si trattava di un ricattatore. Poche categorie d’individui erano dotate delle capacità, delle metodologie e dei mezzi d’informazione appropriati per riuscire a ritrovare le tracce di LuAnn Tyler dopo un buco di dieci anni. Agenti del fisco, agenti del governo o agenti dell’informazione.
Con la punta delle dita, Jackson si sfiorò le palpebre di plastica. In effetti, un ricattatore gli avrebbe posto molti meno problemi. Thomas J. Donovan era un giornalista investigativo di grosso calibro. In qualche modo aveva fiutato una storia importante e non si sarebbe fermato fino a quando non fosse stato pronto a sparare il suo scoop.
Eliminarlo non significava risolvere il problema, e comunque avrebbe suscitato molti interrogativi. Donovan poteva aver condiviso gli elementi della storia con altri, anche se, a quel livello, solitamente i giornalisti restavano abbottonati fino all’ultimo, per timore che qualcuno rubasse loro la notizia.
La mossa giusta era stabilire quanto Donovan sapesse realmente e se ne avesse parlato con qualcun altro. Jackson sollevò il ricevitore del telefono e compose il numero del Washington Tribune. Chiese di parlare con Thomas Donovan, ma dopo una breve attesa gli fu risposto che il giornalista aveva chiesto un periodo di aspettativa. Riappese. Se anche fosse stato messo in contatto con Donovan non gli avrebbe parlato comunque. Quello che gli interessava era ascoltare la sua voce per poterla eventualmente imitare se fosse stato necessario.
Secondo Pemberton, l’individuo misterioso aveva affittato il villino almeno un mese prima. Ovvero: Thomas Donovan voleva LuAnn Tyler. Ma perché proprio lei e non un altro dei vincitori della Lotteria Nazionale i cui nomi erano sulla sua lista? Probabilmente perché LuAnn Tyler era la sola a essere ricercata per omicidio. Ed era anche la sola a essere riapparsa dopo dieci lunghi anni. Nel rientrare negli Stati Uniti, quella donna aveva dato prova di colossale, catastrofica stupidità, questo era vero. Ma non esisteva alcun legame diretto tra LuAnn Tyler e Catherine Savage. La domanda iniziale continuava a rimanere senza risposta. Come aveva fatto Donovan a ritrovare le sue tracce?
Un pensiero improvviso lo assalì. Il giornalista conosceva tutti i suoi vincitori. Se LuAnn avesse rifiutato di aiutarlo, il passo logico successivo di Donovan sarebbe stato quello di mordere un altro degli undici vincitori sulla lista.
Jackson non perse tempo e iniziò a fare una serie di telefonate. Dopo mezz’ora aveva finito con l’undicesima. Rispetto a LuAnn, erano nient’altro che povere pecore. Lo erano state dieci anni prima e continuavano a esserlo anche ora. Avrebbero fatto tutto quello che lui avrebbe ordinato loro di fare. Era il loro salvatore, l’uomo che li aveva condotti per mano fino alla Terra Promessa del benessere e del piacere. E adesso, se Donovan ci avesse provato, la trappola sarebbe scattata.
Jackson prese a passeggiare per la stanza. A un certo punto si fermò, prelevò da una cartelletta alcune fotografie e le osservò alla luce della lampada da tavolo. Le aveva scattate con il teleobiettivo, il giorno stesso del suo arrivo a Charlottesville, addirittura prima d’incontrarsi con Pemberton. Considerando distanza e condizioni di luce, erano venute molto bene. Volti cristallizzati risposero al suo sguardo.
Sally Beecham, sulla quarantina, alta, snella, dall’aria stanca, era la domestica fissa di LuAnn Tyler. Abitava in un appartamento al pianterreno, nell’ala nord di Wicken’s Hunt. Le foto successive erano di due donne delle pulizie, di origine ispanica. Arrivavano alle nove del mattino e se ne andavano alle sei di sera. Poi c’erano le immagini di stallieri, giardinieri e meccanici.
Jackson aveva osservato, sorvegliato, analizzato tutti costoro. Si era impresso in mente la loro mimica corporea, la loro gestualità. Aveva registrato le loro voci attraverso il microfono parabolico e le aveva riascoltate dozzine di volte, nello stesso modo in cui aveva riascoltato dozzine di volte la voce di Riggs. Forse nessuno di questi elementi raccolti nel mondo di Catherine Savage gli sarebbe mai servito, ma l’importante era che lui fosse pronto ad affrontare ogni evenienza. Ripose le fotografie nella cartelletta.
Da uno scomparto nascosto della sua valigetta prese quindi un coltello da lancio. Era di fabbricazione cinese, con l’impugnatura di legno di tek e la lama d’acciaio talmente affilata da rendere impossibile afferrarla a mani nude. Jackson si fermò al centro della stanza, il coltello nel palmo della destra, seguendo il corso dei suoi pensieri. LuAnn Tyler non era più la ragazzina ignorante tirata fuori da una fogna della Georgia. LuAnn Tyler era diventata una donna preparata, sofisticata, potenzialmente molto pericolosa. Chissà se anche lei aveva avuto il presentimento che le loro strade si sarebbero di nuovo incrociate. Forse si era preparata a una tale eventualità. Se avesse usato il tagliacarte, quella sera, avrebbe potuto colpirlo da una distanza di sei metri. E lui non avrebbe avuto scampo.
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