«Qualsiasi cosa lei dica, signora Kroft. È lei quella che conosce meglio di tutti questa bambina.»
Ellen rimase seduta sul prato appena falciato, fissando nulla in particolare, cullando delicatamente Lucy tra le braccia, senza cercare di arrestare il flusso continuo di lacrime dai suoi occhi. Pochi minuti dopo, la bambina cominciò a riprendere conoscenza.
Ellen scivolò dietro il volante della Taurus e si diresse verso nord. Senza volerlo, rivisse l’orribile sequenza di telefonate che avevano dato inizio a torto ciò.
«Mamma, c’è qualcosa che non va in Lucy. Stamattina l’ho portata dal pediatra. Ha detto che era in perfetta forma. Peso e altezza nel cinquantesimo percentile, molto più avanti dei bambini di tre anni per quello che riguarda la favella e la coordinazione mano-oculare. Poi le ha fatto due iniezioni, un vaccino contro difterite, pertosse e tetano e uno contro morbillo, rosolia e orecchioni. Questo è successo otto ore fa. Ma adesso Lucy sta urlando. Mamma, ha la febbre a 39 e non smette di urlare qualsiasi cosa io faccia. Che devo fare?…»
«… Ho chiamato il medico. Lui dice di non preoccuparsi. Un sacco di bambini diventano irritabili dopo le vaccinazioni. Devo darle solo del Tylenol…»
«… Mamma, sono spaventata, realmente spaventata. Ora non urla più, ma è assente. Gli occhi continuano a roteare all’indietro e non reagisce alle mie parole. È come… floscia. Dick è andato a prendere l’auto, la portiamo al pronto soccorso…»
«… Hanno intenzione di tenere Lucy in osservazione. Non capiscono cosa ci sia che non va. Forse un attacco, dice il medico. Mamma, la situazione è brutta. Ho paura. È successo qualcosa di brutto, lo so. Oh, Gesù, che farò? La mia bambina…»
«Che farò?»
Le parole atterrite di Beth riecheggiavano nei pensieri di Ellen, come facevano quasi sempre, dopo che aveva lasciato la piccola all’istituto. A fatica le ricacciò sullo sfondo. Vi erano altre cose su cui concentrarsi quel giorno, soprattutto una riunione dall’altra parte del Potomac, al quartier generale del PAVE, l’associazione dei genitori che richiedevano studi più approfonditi sulle vaccinazioni.
Guidando meccanicamente, Ellen percorse la superstrada George Washington diretta al ponte Teddy Roosevelt. Una sessantatreenne in perfetta forma dai capelli argentei, ancora ricordava il giorno antecedente il suo cinquantacinquesimo compleanno, quando era passata dall’essere, almeno secondo il marito, una donna di «bell’aspetto» a essere «una donna molto bella per la tua età». Un anno e mezzo dopo, Howard l’aveva abbandonata dopo ventinove anni di matrimonio per fuggire con una cameriera sulla trentina che aveva conosciuto durante un congresso di ingegneri a Las Vegas.
In quel momento, era stato come se la sua vita, che scorreva a velocità di crociera, fosse andata a sbattere contro un muro di mattoni. Aveva accettato il prepensionamento dalla scuola media in cui insegnava scienze, poi aveva tirato giù le tapparelle della sua esistenza, chiudendo se stessa dentro e gli amici fuori. Per ironia della sorte, era stata la tragedia di Lucy a riportarla nel mondo.
Era sempre stata una persona positiva, ottimista, ma la dolorosa e inattesa separazione da Howard e la scomparsa di vitalità e vivacità in Lucy avevano minacciato di inviarla a gran velocità verso il fondo di un flacone di Valium. Con l’aiuto di amici ostinati e di uno psicoterapeuta inviato dal cielo, aveva gradualmente aperto le tapparelle e aveva iniziato a mettere un piede davanti all’altro. Ora andava in palestra parecchie volte alla settimana, era coinvolta da vicino nella vita della nipote, faceva volontariato al PAVE e fungeva da unico rappresentante dei consumatori nel prestigioso gruppo federale che valutava il supervaccino sperimentale Omnivax.
Ellen trovò un posto per l’auto a mezzo isolato dal quartier generale del PAVE. Per alcuni anni dopo la sua istituzione a metà degli anni Ottanta, il PAVE era stata un’organizzazione di base gestita dal tavolo della cucina dalle due fondatrici, Cheri Sanderson e Sally Lynch, entrambe convinte che i loro figli erano stati irrimediabilmente rovinati dalle vaccinazioni. Una famiglia alla volta, le due madri avevano scoperto di non essere sole. E ora, con pazienza, duro lavoro e intuizione, il PAVE era diventato una forza che si era guadagnata l’interesse e un certo appoggio dai più alti livelli del Congresso, oltre a decine di migliaia di membri sostenitori. I termini RICERCA, ISTRUZIONE e SCELTA, scritti nel loro logo, esprimevano gli obiettivi dell’ente.
«Non siamo un gruppo di fanatici che assaltano i centri di immunizzazione con i forconi», le aveva spiegato Cheri, durante la prima seduta di orientamento per volontari. «Siamo, tuttavia, dure quando dobbiamo esserlo. Non ci fermeremo, finché le autorità non riconosceranno sia la necessità della ricerca sugli effetti immediati e a lungo termine dei vaccini, sia il bisogno di un’istruzione pubblica e la facoltà di decisione dei genitori quando si tratta di vaccinare i figli.»
Il PAVE aveva veementi detrattori nel campo della scienza, della pediatria, delle malattie infettive e della politica, ma, di anno in anno, indici di morbilità rilevati statisticamente, disastri clinici, riuscite conferenze sponsorizzate dal PAVE e genitori convinti che vi era un rapporto di causa ed effetto tra le vaccinazioni e le infermità dei loro figli, avevano accresciuto l’influenza dell’organizzazione, il numero dei soci e i fondi.
Nei primi anni Novanta, l’associazione, finalmente esentasse, aveva trasferito la sua ampia biblioteca, le decine di cassetti di incartamenti, le sette persone dello staff e i gruppi di volontari al secondo piano di un elegante edificio in arenaria sulla Diciottesima Strada tra DuPont Circle e il quartiere Adams-Morgan. A seguito della sventura di Lucy, Ellen aveva iniziato a mandare modeste donazione. Più tardi, aveva partecipato al corso intensivo per volontari tenuto da Cheri ed era finita ai telefoni. Poco più di un anno dopo, il PAVE era stato informato che era richiesto un rappresentante dei consumatori accanto a scienziati e medici nella commissione federale che doveva valutare l’Omnivax. Cheri e Sally avevano detto a Ellen che, essendo lei un’insegnante di scienze in pensione senza precedenti di militanza e scontro sulla questione dei vaccini, era la persona ideale per quel posto. Le autorità dell’FDA l’avevano accettata. Ellen sospettava che coloro che le avevano offerto quella carica fossero convinti che lei sarebbe rimasta relativamente in silenzio o che gli scienziati e i medici sarebbero riusciti a frustrare i suoi pareri, se fosse stato necessario. Non che importasse. Lei era un solo voto su ventitré e l’appoggio al megavaccino e ai suoi trenta componenti era stato schiacciante fin dall’inizio. Anche se si fosse opposta al progetto, cosa che infatti fece, era stato chiaro fin dalla prima riunione del comitato che il conteggio finale sarebbe stato di ventidue a uno.
La porta degli uffici del PAVE si aprì su una sala affollata con una decina di scrivanie, al momento tutte occupate. Quando Ellen entrò, il personale presente si alzò in piedi e applaudì. Lei fece del suo meglio per farli risedere, poi sorrise cordialmente e s’mchinò. Negli ultimi due anni li aveva tenuti informati sulle riunioni dell’Omnivax, riportandole a volte parola per parola. Tutti avevano sentito racconti di come, equipaggiata di dati epidemiologici e di ricerca accumulati a fatica e di affidavit di esperti che appoggiavano le posizioni del PAVE, si era opposta ad alcuni dei principali fautori dell’ampliamento della portata delle immunizzazioni. Più spesso che no, sembrava avesse tenuto duro.
«Per favore», disse, «è un applauso quasi sufficiente. Voi, laggiù, un po’ più forte, per piacere. Così va meglio. E ora, quelli di voi che lo desiderano, e che si sono lavati secondo il mio protocollo, facciano un passo avanti, s’inginocchino e mi bacino l’anello.»
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