Cinquantamila! Matt non era sicuro di avere solo pensato quella parola; forse l’aveva urlata loro in faccia. Date le limitazioni imposte dall’assistenza sanitaria controllata e lo stato socioeconomico dei suoi pazienti, non guadagnava molto più di quella cifra annualmente.
«Naturalmente», aggiunse con orgoglio Stevenson, «i soldi le verranno corrisposti in modo tale, un modo assolutamente legale, glielo assicuro, da dover sostenere un onere fiscale scarso o nullo.»
Matt rimase senza parole. Riconosceva un ricatto quando ne sentiva uno. Ma questo era un ricatto con la «R» maiuscola. I soldi non avevano mai avuto una grande importanza per lui. L’avessero avuta, sarebbe stato molto più bravo a guadagnarli. Per come stavano le cose, se la cavava bene. Cinquantamila dollari in più all’anno gli avrebbero però permesso di avviare un fondo pensionistico e anche di dare di più per le cause che sosteneva.
«Io… grazie, ma no, grazie», sentì se stesso dire. «Apprezzo la vostra offerta, l’apprezzo veramente, ma secondo me, le mie mani sono molto più utili quando non sono legate.»
«Lei è uno sciocco, Rutledge», sbottò Crook. «Ho cercato di dirlo loro, ma non mi hanno ascoltato. Uno sciocco e un piantagrane.»
Stevenson guardò in cagnesco il cardiologo, quindi fece un ultimo tentativo per salvare la faccia.
«Forse vuole riflettere sulla nostra offerta per alcuni giorni», propose, il sorriso a denti stretti, gli occhi rabbuiati.
Matt scrollò la testa.
«Ciò che voglio è la libertà di invitare un gruppo di mia scelta a ispezionare le condizioni dell’impianto e della miniera, compreso un riesame dei vostri documenti su dove e come ogni goccia di rifiuto tossico è stata smaltita. Ciò che voglio è che indietreggiate e la smettiate di comprare il silenzio di quelli che tacitate all’MSHA e all’EPA.»
«Lei è pazzo!» gridò LeBlanc.
«No, siete voi i pazzi!» Matt sentì il sangue montargli in viso. Come sempre, era lento a irritarsi, ma poi mostrava tutto il suo carattere esplosivo. «Siete pazzi a pensare che un medico rispettabile», sottolineò le parole guardando torvamente Crook, «volterebbe le spalle a casi come quelli di Darryl Teague o Teddy Rideout.»
«Mi dica, dottor Rutledge», domandò Stevenson, ora chiaramente seccato, «è la morte di sua moglie che l’ha resa tanto astioso? Incolpa noi anche della sua morte?»
Matt esplose come una miccia.
«Proprio così!» urlò. «Lei ha dannatamente ragione. Cancro ai polmoni. Provi a vivere con qualcuno che sta morendo di cancro! Sì, do la colpa a voi. Do a voi la colpa di ogni singola cosa che non va da queste parti! Lei è un essere spregevole, LeBlanc! E lei, Crook. Cristo, come fa a chiamarsi dottore quando volta le spalle alla morte e al dolore? Vada a farsi fottere! Andate a farvi fottere tutti voi e il vostro dannato ricatto!»
Armand Stevenson doveva aver premuto un pulsante sotto il tavolo, perché, dopo pochi secondi, nella sala entrarono due mastodontici uomini della sicurezza che indossavano giacconi e cravatte con il monogramma BC C. Stevenson lanciò loro un ordine con un cenno della testa. Uno dei due afferrò un braccio di Matt.
«Lasciami andare!» urlò Matt. Si liberò divincolandosi e afferrò la sacca da ginnastica. «Toccami di nuovo e farai meglio ad avere una serie di palle di ricambio!»
Senza volere, la guardia lanciò un’occhiata ai pesanti stivali da motociclista di Matt. Armand Stevenson gli evitò di dover trovare un modo per aggirarli.
«Seguitelo fuori e assicuratevi che esca dalla proprietà», ordinò. «Lei ha fatto la sua scelta, dottore. Adesso dovrà affrontarne le conseguenze. Lei sta minacciando di portare via il lavoro alla gente di qui. Questa cosa non è considerata benevolmente da queste parti. Per nulla benevolmente. E ora, fuori di qui!»
Ellen Kroft s’inginocchiò accanto alla nipotina e la strinse per le spalle, cercando di ottenere un minimo contatto visivo, qualche connessione.
«La nonna ti ama, Lucy», sussurrò, pronunciando ogni parola con cura, come se parlasse a una bambina di tre anni. «Passa una splendida giornata a scuola.»
La ragazzina, che aveva quasi otto anni, storse il viso in una specie di smorfia, poi inclinò il collo e il suo sguardo sembrò fissarsi oltre la nonna, verso il cielo. Non una parola. Quasi cinque anni di costosa educazione nel miglior istituto per bambini bisognosi di cure speciali, e ancora non diceva una parola.
«Lucy, sei pronta per entrare in classe?»
Gayle era l’insegnante della piccola classe all’istituto Remlinger di Alexandria in Virginia. Sulla ventina, era arrivata da poco nella scuola, ma aveva quell’esuberanza giovanile, quell’atteggiamento positivo e quella santa pazienza richiesti a chi passava la vita a cercare di avvicinare e insegnare a numerosi bambini autistici. Gayle allungò la mano. Lucy continuò a dondolarsi ritmicamente da una parte all’altra come un cavallo muove la coda. Non evitò la mano protesa né cercò di afferrarla. Avrebbe reagito solo davanti a qualcosa di rotante o lampeggiante o dai vivaci colori.
Otto anni.
Erano passati cinque anni dalla diagnosi di profondo autismo fatta alla ragazzina e quasi quattro da quando Ellen aveva cominciato a portarla a scuola, affinché sua figlia Beth potesse riprendere il lavoro.
«Forza, Lucy», canterellò Gayle, accompagnandola via. «Saluta la nonna.»
Saluta la nonna. Ellen rise tra sé e sé sardonicamente. C’era stato un tempo in cui Lucy Kroft-Garland l’aveva fatto. Ora non più. Si voltò e stava aprendo la portiera della sua vecchia Taurus, quando Gayle gridò. Lucy, la schiena arcuata verso l’interno in una posizione che pareva anatomicamente impossibile, era in preda a un violento attacco di epilessia.
Rapidamente, ma con calma metodica, Ellen infilò la mano nel cassetto del cruscotto, tirò fuori quattro abbassalingua in legno legati insieme a un’estremità con del nastro adesivo e corse sul prato. I denti di Lucy sbattevano tra loro come un martello pneumatico, un pericolo per la lingua e le labbra. Dall’angolo della bocca spumeggiava della saliva.
«Che devo fare?» chiese Gayle. «Ho visto altri bambini avere attacchi, ma mai Lucy.»
«Io sì», replicò Ellen, facendo rotolare la nipote sul fianco, in modo da farla vomitare e impedirle di inghiottire. Premette poi il pollice e l’indice nell’angolo della mascella della bambina. Piano piano, la pressione vinse lo spasmo nei muscoli di Lucy. Tra i denti si aprì una piccola fessura ed Ellen inserì con perizia l’improvvisato abbassalingua. Tenendo con una mano il legnetto sulla lingua e con l’altra Lucy ferma sul fianco, fece capire a Gayle che tutto era sotto controllo.
«Devo dire al signor Donnegan di chiamare il pronto soccorso?» domandò la giovane.
«No, cara. Andrà tutto bene. Dobbiamo solo rimanere ancora un po’ qui.»
«Faccio venire comunque il signor Donnegan.»
«D’accordo.»
Il violento attacco era quasi cessato del tutto quando arrivò il direttore della scuola. Ellen era seduta sul prato, la testa di Lucy sul grembo. La bambina era svenuta, in quello stato che i medici chiamano «postaccessuale». Ellen controllò che Lucy non si fosse sporcata o bagnata, quindi alzò lo sguardo sul direttore e scrollò le spalle.
«Dobbiamo chiamare un’ambulanza?» chiese l’uomo.
«Tra venti minuti starà bene. È da tanto che non le succedeva. Forse bisognerà cambiare il dosaggio dei farmaci. Se lei è d’accordo, preferirei rimanesse a scuola. Ci lasci qui ancora per un po’. Se entro venti minuti non sarà tutto passato, la riporterò a casa. Sta comunque meglio qui con gli altri bambini. Molto meglio.»
Per un attimo sembrò che Donnegan non fosse d’accordo, ma poi allungò la mano e diede un colpetto sulla spalla di EUen.
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