«Scava. Lì dove sei.»
David si chinò a prendere il piccone e pensò di usarlo come un’arma, ma Van Slyke sembrò leggergli nel pensiero, perché si tirò indietro, continuando a tremare e a tenere la rivoltella puntata contro di lui. Non era consigliabile tentare di assalirlo.
David notò alcuni sacchi di cemento e di sabbia e pensò che fosse stato proprio il rumore di quei sacchi gettati a terra che aveva udito dallo stanzino. Calò il piccone sul pavimento, ma riuscì a scalfirlo solo di pochi centimetri. Riprovò ancora, ma senza migliori risultati. Allora prese la pala e raschiò via la terra che aveva smosso. Non aveva dubbi sulle intenzioni di Van Slyke: gli stava facendo scavare la tomba. Si chiese se anche con Phil Calhoun avesse seguito la stessa procedura.
Sapeva che la sua unica speranza era farlo parlare.
«Quanto devo scavare?» domandò, passando nuovamente al piccone.
«Voglio un buco grosso, come quello di una ciambella. La voglio tutta. Voglio che mia madre mi dia tutta la ciambella.»
David deglutì. La psichiatria non era mai stata il suo forte, quando frequentava la facoltà di medicina, ma capì che ciò a cui stava assistendo era chiamato «libera associazione» ed era un sintomo di schizofrenia acuta.
«Tua madre ti dava tante ciambelle?» gli chiese. Non sapeva bene che cosa doveva dire, ma desiderava disperatamente farlo parlare.
Van Slyke lo guardò come se fosse stupito di vederlo lì e rispose: «Mia madre si è suicidata. Si è uccisa», poi rise a squarciagola.
David ricordò un altro sintomo della schizofrenia, chiamato eufemisticamente «affettività inadeguata», e gli tornò alla mente l’altro componente della sua malattia evidenziatosi durante il servizio in marina: la paranoia.
«Scava più in fretta!» gridò improvvisamente Van Slyke, come se si fosse risvegliato da una trance.
David obbedì, ma non rinunciò al tentativo di farlo parlare. Gli chiese come si sentiva e poi che cosa aveva in mente, ma non ottenne risposta. Era come se l’altro fosse completamente assorbito dai suoi pensieri. Il viso era privo di espressione.
«Stai sentendo delle voci?» gli chiese allora, tentando un altro tipo di approccio. Intanto, continuava a menare colpi di piccone. Poiché non ci fu alcuna risposta, sollevò di nuovo lo sguardo su Van Slyke, la cui espressione era nuovamente cambiata, ora esprimendo sorpresa. Aveva gli occhi come due fessure e il tremore era aumentato.
David smise di scavare e lo osservò, colpito dall’intensità di quel mutamento. «Che cosa dicono le voci?» gli domandò allora.
«Niente!» gridò l’altro.
«Sono come quelle che sentivi in marina?» insistette ancora David.
Van Slyke incurvò le spalle e lo guardò più che sorpreso. Appariva scioccato.
«Come fai a sapere della marina? E come fai a sapere delle voci?»
Nel suo tono di voce David colse la paranoia e si sentì incoraggiato: stava cominciando a incrinare la sua corazza.
«So un sacco di cose su di te», gli rispose. «So quello che hai fatto, ma ti voglio aiutare. Io non sono come gli altri ed è per questo che sono qui. Sono un medico e mi preoccupo per te.»
Van Slyke non parlò. Si limitò a guardare David, che continuò: «Mi sembri molto scombussolato. È per i pazienti?»
L’altro rimase senza fiato, come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco. «Quali pazienti?» domandò.
David deglutì ancora, aveva la bocca secca. Sapeva che stava correndo grossi rischi e sentiva le parole di Angela che l’aveva messo in guardia, ma non aveva scelta, doveva giocare d’azzardo.
«Sto parlando dei pazienti che hai aiutato a morire.»
«Dovevano morire in ogni caso», gridò Van Slyke.
David sentì un brivido lungo la spina dorsale. Allora era stato proprio lui!
«Non li ho uccisi io», sbottò Van Slyke. «Sono stati loro. Lo hanno schiacciato loro il bottone, non io.»
«Che cosa intendi?»
«Sono state le onde radio.»
David annuì e cercò di sorridere in maniera compassionevole, nonostante la paura. Era chiaro che aveva a che fare con le allucinazioni di uno schizofrenico paranoide. «Sono le onde radio che ti dicono che cosa fare?»
L’espressione di Van Slyke cambiò ancora una volta. Ora guardò David come se lo considerasse pazzo. «Certo che no», rispose sdegnato, poi fu di nuovo in preda alla collera e domandò nuovamente: «Come fai a sapere della marina?»
«Te l’ho già detto, io so un sacco di cose su di te», rispose David, «e ti voglio aiutare. È per questo che sono qui, ma non ti posso aiutare, se non mi dici tutto. Voglio sapere chi sono ‘loro’. Tu capisci le voci che senti?»
«Avevi detto che sai un sacco di cose su di me.»
«Sì, ma non so chi ti dice di uccidere la gente e nemmeno perché lo fai. Penso che siano le voci a dirtelo. È così?»
«Chiudi il becco e scava», replicò Van Slyke, puntando la rivoltella leggermente a sinistra rispetto a David e premendo il grilletto. La pallottola si conficcò nella porta dello stanzino, che gemette sui cardini.
David riprese a scavare, spaventato, ma dopo qualche palata decise di correre di nuovo il rischio di parlare. Voleva riguadagnare credibilità, impressionando l’altro con la quantità di informazioni che aveva su di lui.
«Lo so che ti pagano per quello che fai», gli disse, «e so anche che metti i soldi nelle banche di Albany e di Boston, ma non so chi ti paga. Chi è, Werner?»
Van Slyke rispose con un gemito. David sollevò la testa e lo vide reggersi la testa fra le mani, coprendosi le orecchie come per difenderle da rumori molesti.
«Le voci stanno diventando più forti?» gli domandò quasi urlando, per farsi sentire ugualmente.
Van Slyke annuì e cominciò a guardarsi intorno frenetico, come per cercare una via di fuga. David approfittò della sua momentanea distrazione per afferrare il badile e valutare la distanza che li separava, chiedendosi se sarebbe riuscito a colpirlo e se questo sarebbe stato sufficiente a neutralizzare la minaccia della pistola.
Ma quel momento passò e Van Slyke tornò a tenerlo sotto controllo.
«Chi è, chi ti sta parlando?» gli domandò allora David, per non allentare la pressione.
«Sono i computer e le radiazioni, proprio come in marina», gridò l’altro.
«Ma non sei più in marina, non sei su un sottomarino nel Pacifico. Sei a Bartlet, nel Vermont, nella tua cantina. Qui non ci sono computer e radiazioni.»
«Come fai a sapere così tante cose?» Stava riaffiorando la collera.
«Ti voglio aiutare, lo so che sei sconvolto e che stai soffrendo. Devi sentirti in colpa. Lo so che hai ucciso tu il dottor Hodges.»
Van Slyke rimase a bocca aperta e David si domandò se si era spinto troppo oltre. Intuiva di avere evocato in lui una forte paranoia e sperava di non attirare la sua rabbia su di sé, come temeva Angela. Sapeva di dover riportare la conversazione sull’argomento di chi pagava Van Slyke, ma non sapeva come fare.
«Ti hanno pagato per uccidere il dottor Hodges?»
L’altro rise con disprezzo. «Questo dimostra che sai ben poco. Loro non c’entrano con Hodges. L’ho fatto perché lui si era rivoltato contro di me, dicendo che assalivo le donne nel parcheggio dell’ospedale. Ma non ero io. Minacciava di dirlo a tutti, a meno che io me ne andassi dall’ospedale. Ma gliel’ho fatta vedere io!»
Ora il suo viso era di nuovo privo di espressione. Scosse la testa e, come risvegliandosi da un sonno profondo, si strofinò gli occhi e fissò David. Sembrava stupito di vederselo davanti, con una pala in mano, ma la confusione si trasformò rapidamente in collera. Sollevò la rivoltella, mirando alla testa.
«Ti ho detto di scavare!» ringhiò.
David si affrettò a obbedire, continuando a temere che l’altro sparasse ugualmente. Quando vide che non lo faceva, si chiese di nuovo come procedere. Era evidente che il suo approccio non funzionava. Era riuscito a mettere Van Slyke sotto pressione, ma non abbastanza o non nel modo giusto.
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