Robin Cook - Vite in pericolo

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Un’agghiacciante incursione nel lato più oscuro dell’assistenza sanitaria, nel fatidico incrocio tra il valore supremo dell’esistenza umana e i cinici interessi del mondo finanziario, capace di subordinare la vita e la morte alla pericolosa seduzione del denaro. Dopo lunghi anni trascorsi nei corridoi di un grande ospedale di Boston, Angela e David Wilson, un’affiatata coppia di medici, decidono di abbandonare la frenesia della metropoli per trasferirsi, con la figlioletta Nikki gracile e malata, in campagna, in una tranquilla cittadina del Vermont. La bellezza e la serenità del luogo, insieme all’affettuosa accoglienza dei suoi abitanti, appaiono un sogno divenuto realtà, destinato a infondere un’ondata di entusiasmo alle loro esistenze: verdi distese di prati, laghi cristallini incastonati in una cornice incantevole di montagne, al posto dell’inquinamento e della criminalità della città. E, nello stesso tempo, si profila per entrambi i coniugi la possibilità di lavorare in un centro gestito in modo dinamico e moderno, dotato di attrezzature all’avanguardia. Ma dopo il primo magnifico, romantico autunno, a Bartlet comincia a profilarsi un paesaggio spoglio e desolato, che rivela, dietro i tristi scheletri degli alberi, oscure e macabre macchinazioni...
A poco a poco, poi a un ritmo sempre più rapido, il paradiso terrestre dei Wilson si sgretola: numerosi pazienti con strani sintomi cominciano a morire misteriosamente, inquietanti trame si nascondono nelle stanze del loro ospedale; un incubo mortale li minaccia... Coinvolti in un sistema medico criminale, nel quale la polizia non intende indagare, Angela e David dovranno combattere con le loro sole forze per non essere travolti dall’orrore e salvaguardare così la felicità della loro famiglia.

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Purtroppo, scoprì una cosa che lo lasciò interdetto: a Mary Ann era stata assegnata la stanza 206, la stessa che era stata da poco lasciata libera da John Tarlow e gli venne l’impulso di chiedere che venisse spostata in un’altra, ma poi si disse che quella era superstizione. Che cosa avrebbe detto all’accettazione? Che non voleva più che i suoi pazienti fossero sistemati nella stanza 206? Era ridicolo.

Dopo avere verificato che la terapia a base di antibiotici era già iniziata, David promise a Mary Ann di ritornare più tardi, poi passò da Jonathan. Lo trovò rilassato e a proprio agio, con il monitor già sistemato. Il suo paziente gli disse che il cardiologo sarebbe arrivato subito.

Quando ritornò in ambulatorio, Susan lo avvisò che gli aveva telefonato Charles Kelley. «Vuole vederla immediatamente e ha sottolineato ‘immediatamente’.»

«Quanti pazienti ci restano?»

«Tantissimi, quindi cerchi di non starci troppo.»

Sentendosi come se portasse tutto il peso del mondo sulle spalle, David si trascinò fino agli uffici del CMV. Poteva immaginare il motivo per cui era stato chiamato a rapporto.

«Non so proprio che cosa fare, David», esordì l’uomo, scuotendo la testa. Questa volta aveva deciso d’interpretare il ruolo dell’amico ferito.

«Ho cercato di ragionare con lei, ma o è testardo o non le importa niente del CMV. Proprio il giorno dopo che le ho raccomandato di evitare consulti esterni superflui, lei lo ha fatto di nuovo e con un altro paziente terminale. Che cosa devo fare con lei? Lo capisce che bisogna prendere in considerazione il costo delle cure mediche? Lo sa che nel Paese è in corso una crisi?»

David Annuì. Quello era vero.

«Allora perché le è così difficile agire di conseguenza?»

Il tono di voce tendeva ora alla collera. «E questa volta non si tratta solo del CMV, ma anche dell’ospedale. Mi ha appena chiamato Helen Beaton, lamentandosi per i farmaci immensamente costosi che lei ha ordinato per un paziente già moribondo. Lo hanno confermato anche i suoi colleghi che ha chiamato in consulto. Erano anni che soffriva di leucemia, non capisce? Questo vuol dire sciupare denaro e risorse.»

Kelley pareva arrivato al massimo della tensione. La voce era acuta, il viso arrossato, ma poi si fermò e sospirò, scuotendo di nuovo la testa. «Helen Beaton si è anche lamentata perché lei ha richiesto un’autopsia», continuò con voce stanca. «Le autopsie non fanno parte del contratto fra noi e l’ospedale e lei ne era stato informato di recente. David, dev’essere ragionevole, mi deve aiutare, oppure…» Kelley non finì la frase, lasciandola sospesa nell’aria.

«Oppure che cosa?» chiese David. Sapeva che cosa l’altro intendeva, ma voleva che fosse lui a dirlo.

«Lei mi piace, David», affermò Kelley, «ma ho bisogno del suo aiuto. Sopra di me ho altre persone a cui devo rispondere, spero che se ne renda conto.»

Nel tornarsene verso l’ambulatorio, David si sentiva più depresso che mai. Kelley lo irritava con le sue intromissioni, ma per certi aspetti aveva ragione. Denaro e risorse non dovevano essere buttati via con i pazienti terminali, quando potevano essere meglio utilizzati altrove. Ma era davvero quella la questione in ballo?

Più confuso e mortificato che mai, David aprì la porta del suo ambulatorio e vide una sala d’aspetto strapiena di pazienti scontenti che guardavano furiosi gli orologi e sfogliavano rumorosamente le riviste.

A casa Wilson, la cena si svolse in silenzio e in un’atmosfera tesa. Persino Nikki aveva passato una brutta giornata a causa del nuovo maestro, il signor Hart, che era già odiato da tutta la classe. Il problema maggiore per lei era stato che non le aveva permesso di svolgere i suoi esercizi per i polmoni.

Dopo cena, David tentò di rallegrare la serata proponendo un bel fuoco, ma quando scese in cantina e vide i nastri gialli messi dalla scientifica per delimitare il luogo del delitto, gli ritornò alla mente la macabra immagine del cadavere del signor Hodges.

Raccolse in fretta un po’ di legna e tornò rapidamente di sopra. In genere non era un tipo superstizioso o fifone, ma in seguito ai recenti eventi lo stava diventando.

Dopo avere acceso il fuoco nel salottino, si mise a parlare con entusiasmo dell’inverno che stava arrivando e di tutti gli sport che avrebbero potuto praticare: lo sci, la slitta e il pattinaggio. Era quasi riuscito a coinvolgere moglie e figlia, rimettendole di buon umore, quando i fari di un’auto illuminarono la parete della stanza.

«È una macchina della polizia di Stato», annunciò David, che era andato alla finestra. «Che cosa diavolo vorranno a quest’ora?»

«Oh, me n’ero completamente dimenticata!» esclamò Angela. «Stamattina mi hanno chiesto se potevano ritornare con il buio per cercare le macchie di sangue.»

«Macchie di sangue? Ma Hodges è stato ucciso mesi fa!»

«Dicono che vale la pena provare.»

Erano gli stessi investigatori della mattina. Quillan sembrava il responsabile delle indagini e Angela lo presentò a David, che gli chiese subito come funzionava il test che dovevano fare.

«A contatto con il ferro residuo del sangue, il Luminol diventa fluorescente», spiegò Quillan.

«Interessante», mormorò David, rimanendo però scettico.

I tre tecnici non vedevano l’ora di finire quella lunga giornata di lavoro, così David e Angela si misero in disparte e li lasciarono lavorare.

Cominciarono dallo stanzino dietro la cucina, quello dove si lasciavano gli stivali e i cappotti e che fungeva da ingresso posteriore. Piazzarono un treppiedi, su cui sistemarono una macchina fotografica e spensero la luce, poi spruzzarono il Luminol con un flacone simile a quelli che si usano per pulire i vetri.

«Qui ce n’è un po’», si udì la voce di Quillan nell’oscurità. David e Angela si affacciarono nello stanzino e scorsero una debole chiazza fluorescente.

«Non è abbastanza per scattare una foto», disse uno degli altri due tecnici.

Passarono al vaglio tutta la stanza, ma non trovarono altre tracce e allora spostarono la macchina fotografica in cucina. Quillan fece spegnere anche le luci della sala da pranzo e del corridoio.

I Wilson rimasero sulla soglia e all’improvviso videro che alcune zone della parete vicino allo stanzino posteriore cominciavano a divenire fluorescenti.

«È debole, ma ce n’è parecchio», osservò Quillan. «Io continuo a spruzzare, voi aprite l’otturatore della macchina fotografica.»

«Mio Dio, stanno trovando macchie di sangue per tutta la mia cucina!» sussurrò Angela.

Degli uomini al lavoro si potevano distinguere soltanto le sagome e udire i loro movimenti nell’oscurità. Quando si avvicinarono al tavolo che i Wilson avevano comprato da Clara Hodges e che usavano per mangiare in cucina, le sue gambe cominciarono a emanare una luminescenza spettrale.

«Suppongo sia questo il luogo del delitto», disse uno dei tecnici. «Proprio qui, vicino al tavolo.»

Dopo che la polizia se ne fu andata, i Wilson ritornarono davanti al camino, ma erano ancora più depressi di prima e nessuno tentò di rendere l’atmosfera meno pesante.

Angela si sedette sulle pietre del camino, dando le spalle al fuoco, e fissò David e Nikki che si erano accasciati sul divano. Non le piaceva ciò che aveva appena scoperto: la sua cucina conservava le tracce di un orrendo delitto. Quella era la stanza che considerava come il cuore della casa e adesso veniva a sapere che era stata profanata dalla violenza. Era come se sulla sua famiglia gravasse una minaccia diretta.

Condensò il succo dei suoi pensieri in una frase con la quale ruppe improvvisamente il silenzio: «Forse dovremmo traslocare».

«Aspetta un momento», reagì David. «Lo so che sei sconvolta, lo siamo tutti, ma non dobbiamo lasciarci andare all’isterismo.»

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