«Tu non sei responsabile della morte di Marcia», proseguì Paula, leggendogli qualcosa in viso.
Lui distolse lo sguardo. Apprezzava la sua comprensione, ma le accuse del sovrintendente avevano rintuzzato un senso di colpa già latente. Razionalmente sapeva di aver fatto tutto il possibile per proteggere la dottoressa Fairfield. Ma lui ne era uscito vivo, e lei no. Quelli erano i fatti.
Khamisi si alzò. Non voleva disturbare oltre. Era andato lì per rendere i suoi omaggi e per dire di persona alla dottoressa Kane che cosa era accaduto. «Ora devo andare.»
Paula si alzò e lo accompagnò alla porta a zanzariera. Lo fermò con una mano, prima che uscisse. «Secondo te, che cosa è stato?»
Lui si voltò verso di lei.
«Che cosa l’ha uccisa?» insistette Paula.
Khamisi guardò fuori: c’era troppa luce per parlare di mostri. In più, gli era stato vietato di riferire particolari della faccenda. C’era in ballo il suo lavoro.
Guardò Paula e le disse la verità. «Non è stata una leonessa.»
«E allora che cosa?»
«Lo scoprirò.»
Spinse la porta e scese i gradini. Il suo piccolo pick-up arrugginito era parcheggiato sotto il sole. Lo raggiunse, salì nell’abitacolo rovente e prese la strada di casa.
Per la centesima volta, rivisse il terrore della giornata precedente. Sentiva a fatica il rombo del motore, sovrastato dall’eco delle urla dell’ ukufa nella sua testa. Non era una leonessa. Non ci avrebbe mai creduto.
Raggiunse gli alloggi destinati allo staff del parco, una schiera di costruzioni improvvisate su palafitte senza aria condizionata. Sollevando una nuvola di polvere rossa, parcheggiò di fronte al cancello di casa sua.
Esausto, aveva intenzione di riposare per qualche ora. Poi sarebbe andato in cerca della verità.
Sapeva già dove cominciare le indagini.
Ma l’avrebbe fatto più tardi.
Mentre si avvicinava alla recinzione del cortile davanti alla casa, notò che il cancello era socchiuso. Si assicurava sempre di chiuderlo col paletto, quando usciva, ogni mattina. D’altra parte, dopo l’annuncio della loro scomparsa, la notte precedente, era possibile che qualcuno fosse andato a cercarlo a casa.
Ma i sensi di Khamisi erano ancora in allerta, fin dal momento in cui aveva sentito quel primo urlo nella giungla. Dubitava persino che quella condizione potesse mai cambiare.
S’infilò nel cortile. Notò che la porta d’ingresso sembrava chiusa e vide la posta che sporgeva dalla cassetta delle lettere: non era stata toccata. Salì i gradini, uno alla volta.
Avrebbe voluto avere un pugnale o una pistola.
Sentì uno scricchiolio. Non proveniva dai gradini sotto i suoi piedi, ma dalle tavole del pavimento, dentro la casa.
I suoi sensi gli dicevano di fuggire.
No. Stavolta no.
Raggiunse il portico, si mise a lato della porta e controllò il catenaccio.
Non era chiuso a chiave.
Lo sganciò e spinse la porta. Sentì scricchiolare il pavimento un’altra volta, in fondo alla casa.
«Chi è?»
Himalaya,
ore 08.25
«Vieni a vedere.»
Painter si svegliò di soprassalto, subito vigile. Un dolore lancinante lo pugnalava tra gli occhi. Scivolò giù dal letto, già vestito. Non si era reso conto di essersi addormentato. Lui e Lisa erano ritornati in camera qualche ora prima, scortati dalle guardie. Anna doveva sbrigare qualche faccenda e procurare alcune cose che Painter aveva richiesto.
«Quanto ho dormito?» chiese, sentendo svanire lentamente il mal di testa.
«Scusa, non sapevo che dormissi.» Lisa era seduta a gambe incrociate di fronte al focolare, accanto a un tavolino con fogli di carta sparsi sopra. «Non può essere più di quindici, venti minuti. Volevo che tu vedessi questo.»
Painter si alzò. La stanza vacillò per un istante, poi si riassestò. Per niente bene. Raggiunse Lisa e si lasciò cadere accanto a lei.
Notò la macchina fotografica appoggiata sui fogli.
Lisa aveva chiesto che le fosse restituita la sua Nikon, come primo atto di cooperazione da parte dei loro carcerieri. Fece scivolare un foglio di carta verso di lui. «Guarda.»
Ci aveva disegnato una serie di simboli: erano le rune che Lama Khemsar aveva scarabocchiato sulla parete. Lisa doveva averle copiate dalla foto digitale. Painter vide che sotto ogni simbolo era scritta una lettera corrispondente.
«Era un semplice codice a sostituzione. Ogni runa rappresenta una lettera dell’alfabeto. È bastato fare qualche tentativo.»
« Schwarze Sonne », lesse lui ad alta voce.
«Sole Nero. Il nome del progetto nazista.»
«Perciò Lama Khemsar ne era al corrente.» Painter scosse la testa. «Il vecchio buddista aveva i suoi contatti, da queste parti.»
«Ed evidentemente ne è rimasto traumatizzato.» Lisa prese il foglietto. «La follia deve avere risvegliato antiche ferite.»
«O forse il Lama ha cooperato sin dall’inizio e il monastero era una sorta di avamposto di guardia del castello.»
«Se è andata così, guarda quanto gli è valsa, la cooperazione», commentò Lisa con un tono pungente. «È forse indicativo della ricompensa che otterremo noi?»
«Non abbiamo scelta. È l’unico modo per restare in vita: essere necessari.»
«E poi? Quando non saremo più necessari ?»
Painter non volle alimentare nessuna illusione. «Ci uccideranno. Cooperando guadagneremo soltanto un po’ di tempo.»
Painter notò che Lisa non cercava di sfuggire alla realtà, anzi sembrava che ne traesse forza. Drizzò le spalle, mostrandosi risoluta. «Allora, che cosa facciamo per prima cosa?»
«Riconosciamo il primo passo di ogni conflitto.»
«E cioè?»
«Conosci il tuo nemico.»
«Penso di sapere già troppo di Anna e della sua ciurma.»
«No, parlavo di scoprire chi c’è dietro l’esplosione della notte scorsa. Il sabotatore, o chiunque l’abbia ingaggiato. Sta succedendo qualcosa, qui. Quei primi atti di sabotaggio, le manomissioni dei controlli di sicurezza della Campana, le prime malattie… avevano lo scopo di incuriosirci. Di sollevare un po’ di fumo e attirarci qui, con quelle voci di strane malattie.»
«Ma perché fare una cosa del genere?»
«Per assicurarsi che il gruppo di Anna fosse scoperto e smantellato. Non trovi strano che la Campana, il fulcro di questa tecnologia, sia stata distrutta soltanto dopo il nostro arrivo? Che cosa può far pensare, questo?»
«Che, se da una parte volevano che il progetto di Anna fosse smantellato, dall’altra non volevano che il fulcro della tecnologia cadesse nelle mani di qualcun altro.»
Painter annuì. «E forse qualcosa di ancora più terribile. Potrebbe essere tutto un diversivo, un trucco da prestigiatore: tu guarda qui, che intanto io, di nascosto, faccio il mio trucco da un’altra parte. Ma chi è il misterioso illusionista dietro le quinte? Qual è il suo scopo, il suo intento? È questo che dobbiamo scoprire.»
«E le apparecchiature elettroniche che hai chiesto ad Anna?»
«Forse ci aiuteranno a scovare la talpa. Se riusciamo a incastrare il sabotatore, scopriremo chi tira davvero le fila di tutto quanto.»
Un colpo alla porta li fece trasalire.
Painter si alzò, mentre la sbarra veniva sfilata e la porta si spalancava.
Entrò Anna, con Gunther al fianco. L’uomo si era ripulito dall’ultima volta che Painter l’aveva visto. Il fatto che nessun’altra guardia li seguisse nella stanza era un chiaro segno di quanto fosse pericoloso quel bestione. Non aveva nemmeno un’arma.
«Ho pensato che forse vi andava di fare colazione con noi», disse Anna. «Quando avremo finito, probabilmente le apparecchiature che ha richiesto saranno già arrivate.»
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