James Rollins - L'ordine del sole nero

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L'ordine del sole nero: краткое содержание, описание и аннотация

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IERI. Germania, 1945: in un bunker sotterraneo viene portato a termine un esperimento rivoluzionario…
OGGI. Nepal: in un remoto monastero un’ondata di follia si diffonde improvvisamente tra i monaci, che scrivono col sangue indecifrabili sequenze di rune celtiche e svastiche. Copenhagen: a un’asta di libri antichi ricompare la Bibbia appartenuta a Charles Darwin, un volume che cela la chiave di un mistero sconcertante. Sudafrica: l’ultimo segreto dei nazisti sta per riemergere dal profondo della giungla… Grayson Pierce e la Sigma Force sono di nuovo in azione.

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Brava ragazza.

Gray si bilanciò il pugnale nella mano. Ancora una volta, una sola possibilità. Facendo un respiro profondo, saltò su, fece perno sulla balaustra e la scavalcò con un volteggio. Mentre cadeva verso il lastricato, fece due cose allo stesso tempo.

«Corri!» gridò, e lanciò il pugnale verso il nascondiglio del cecchino. Non sperava di ucciderlo, soltanto di distrarlo a sufficienza per poterlo avvicinare. Un fucile era ingombrante negli scontri ravvicinati.

Atterrando, notò due cose.

Una buona e una cattiva.

Sentì echeggiare i passi di Fiona sulla scala di metallo.

Stava fuggendo.

Bene.

Allo stesso tempo, Gray guardò il suo pugnale volare nell’aria fumosa, colpire il bidone della spazzatura e rimbalzare a terra. Non ci era andato neanche vicino.

Male.

Il cecchino si alzò dalla sua postazione, per nulla turbato, puntando il fucile direttamente al petto di Gray.

«No!» urlò Fiona, mentre arrivava in fondo alle scale.

Il cecchino non sorrise nemmeno quando premette il grilletto.

Riserva di Hluhluwe-Umfolozi,

Zululand, Sudafrica

«Via!» ripeté Khamisi.

La dottoressa Fairfield non ebbe bisogno di ulteriori incitamenti. Fuggirono verso la Jeep che li aspettava. Raggiunto l’abbeveratoio, Khamisi fece cenno alla dottoressa di passare avanti. Lei si fece largo a spallate tra le alte canne, ma non prima di incrociare il suo sguardo, in silenzio. Aveva il terrore negli occhi, proprio come lui.

Di qualunque cosa si trattasse, quelle creature urlanti nella foresta davano l’impressione di essere enormi e stuzzicate dalla recente uccisione. Khamisi si voltò a dare un’occhiata alla carcassa macerata del rinoceronte. Mostri o no, non aveva bisogno di altre informazioni su ciò che poteva nascondersi in quel labirinto fatto di fitte foreste, esili ruscelli e gole ombreggiate.

Girando nuovamente su se stesso, Khamisi seguì la biologa. Guardava spesso indietro, con le orecchie tese a captare qualsiasi suono di inseguimento. Ci fu un tonfo nell’acqua del vicino stagno. Khamisi lo ignorò, era qualcosa di piccolo. Troppo piccolo. Il suo cervello scartava i dettagli estranei, vagliando i suoni tra il ronzio degli insetti e il crepitio delle canne. Era concentrato sui veri segnali di pericolo. Suo padre gli aveva insegnato a cacciare quando aveva soltanto sei anni, inculcandogli i segni da cercare nell’inseguire le prede.

Questa volta, però, la preda era lui.

Un frullio di ali in panico gli fece aprire gli occhi e le orecchie.

Un movimento appena percettibile. Sulla sinistra, in lontananza.

Nel cielo.

Un’averla che si era alzata in volo.

Qualcosa l’aveva spaventata. Qualcosa che stava arrivando.

Khamisi raggiunse la dottoressa al limitare delle canne. «Presto.»

La Fairfield allungò il collo, facendo oscillare il fucile. Era in affanno, pallida. Khamisi seguì il suo sguardo. La Jeep era più su, ai piedi della collina, parcheggiata all’ombra del baobab, ai margini della profonda conca. Il pendio sembrava più ripido e più lungo di quando lo avevano percorso in discesa.

«Non si fermi», la incalzò lui.

Dando un’occhiata indietro, Khamisi vide una femmina di saltarupe, dal manto bruno fulvo, saltare fuori dalla foresta e risalire a grandi balzi il pendio opposto, sollevando una nuvola di polvere. Dopo un attimo era scomparsa.

Dovevano seguire il suo esempio.

La dottoressa Fairfield riprese a risalire il pendio. Khamisi la seguiva, camminando lateralmente, con la doppietta puntata verso la foresta alle loro spalle.

«Non hanno ucciso per mangiare», disse ansimando la dottoressa, davanti a lui.

Khamisi studiava l’oscuro garbuglio della foresta. Perché era certo che la Fairfield avesse ragione?

«Non è la fame che li ha istigati», proseguì la biologa, come se si sforzasse di placare il panico tramite la riflessione. «Non hanno mangiato quasi niente. È come se avessero ucciso per piacere, come un gatto domestico che caccia un topo.»

Khamisi era entrato in contatto con molti predatori. Quella situazione non rientrava nelle modalità del mondo naturale. Dopo un pasto, i leoni raramente rappresentavano una minaccia. Solitamente se ne stavano sdraiati indolenti, si poteva persino avvicinarli, a una certa distanza. Un predatore sazio non avrebbe squartato una femmina di rinoceronte, strappandole il piccolo dalla pancia, per puro divertimento.

La dottoressa Fairfield proseguiva la sua litania, come se il pericolo imminente fosse un rebus da risolvere: «Nel mondo degli animali domestici, il gatto ben nutrito caccia di più , avendo il tempo e l’energia per quel tipo di gioco».

Gioco?

Khamisi rabbrividì. «L’importante è che lei continui a camminare», disse, non volendo sentire altro.

La dottoressa Fairfield annuì, ma le sue parole rimasero impresse nella mente di Khamisi. Che tipo di predatore poteva uccidere per puro divertimento?

Una risposta ovvia c’era: l’uomo.

Ma quella non era opera di un essere umano.

Ancora una volta, un movimento catturò lo sguardo di Khamisi. Solo per un attimo, una sagoma diafana comparve dietro la cortina della foresta oscura. La vide con la coda dell’occhio, ma sparì come una nuvola di vapore, quando lui si concentrò su quel punto.

Gli sovvennero le parole del vecchio zulù raggrinzito: Per metà bestia, per metà fantasma…

Nonostante il caldo, si sentì raggelare. Accelerò il passo, quasi spingendo l’anziana biologa su per il pendio. Il terreno di sabbia e scisto era ingannevole: poco compatto, sfuggiva sotto i piedi. Ma erano quasi arrivati in cima. La Jeep era a soli trenta metri di distanza.

Poi la dottoressa scivolò. Sbatté un ginocchio e cadde addosso a Khamisi. Lui incespicò all’indietro, perse l’appoggio e cadde pesantemente a terra. L’inclinazione del pendio e lo slancio lo fecero capitombolare. Ruzzolò per metà della scarpata, finché non riuscì a frenare la caduta coi talloni e col calcio del fucile.

La dottoressa Fairfield era ancora seduta nel punto in cui era finita a terra, gli occhi spalancati per il terrore, lo sguardo fisso su un punto, più in basso.

Non guardava lui, ma la foresta.

Khamisi si voltò, poggiandosi sulle ginocchia. Un dolore lancinante gli martoriava la caviglia, distorta o forse rotta. Cercò e non vide nulla, ma sollevò comunque il fucile. «Vada!» Aveva lasciato le chiavi nel quadro. «Vada!»

Sentì la dottoressa Fairfield alzarsi, tra lo sgretolio dello scisto.

Dal limitare della foresta emerse un altro ululato, una risata stridula inumana.

Khamisi puntò il fucile alla cieca e premette il grilletto. Il tuono del fucile squarciò la valle. Dietro di lui, la dottoressa Fairfield gridò, allarmata. Khamisi sperò che il rumore avesse spaventato anche quelle creature sconosciute che stavano in agguato.

«Vada alla Jeep! Non mi aspetti!» Si alzò, senza pesare sulla caviglia infortunata. Teneva pronto il fucile. Il silenzio era calato nuovamente sulla foresta.

Sentì la dottoressa Fairfield in cima al pendio: «Khamisi…»

«Prenda la Jeep!» Si arrischiò a dare un’occhiata alle sue spalle.

Giunta sul crinale, la dottoressa Fairfield puntò verso il fuoristrada.

Sopra di lei, un movimento tra i rami del baobab attirò l’attenzione di Khamisi, una lieve oscillazione di qualche grappolo di fiori bianchi. Non c’era vento. «Presto! Non…»

Dietro di lui si scatenò un urlo selvaggio, che soffocò il resto del suo avvertimento. La dottoressa Fairfield fece mezzo passo verso di lui.

No…

Saltò giù dalle ombre profonde dell’albero gigante. Era una massa chiara informe. Cadde sulla biologa ed entrambi scomparvero alla sua vista. Sentì l’urlo agghiacciante della donna, troncato sul nascere.

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