Giorgio Faletti - Io sono Dio

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Non c’è morbosità apparente dietro le azioni del serial killer che tiene in scacco la città di New York. Non sceglie le vittime seguendo complicati percorsi mentali. Non le guarda negli occhi a una a una mentre muoiono, anche perché non avrebbe abbastanza occhi per farlo. Una giovane detective che nasconde i propri drammi personali dietro a una solida immagine e un fotoreporter con un passato discutibile da farsi perdonare sono l’unica speranza di poter fermare uno psicopatico che nemmeno rivendica le proprie azioni. Un uomo che sta compiendo una vendetta terribile per un dolore che affonda le radici in una delle più grandi tragedie americane. Un uomo che dice di essere dio.

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Avrebbe continuato su quella linea d’azione. Il lungo rettilineo lo aveva portato senza accorgersene a premere il piede sull’acceleratore, finché un lampo multicolore e un suono acuto alle sue spalle erano arrivati a chiederne il conto.

Aveva accostato sulla destra e aveva atteso l’inevitabile arrivo dell’agente. Aveva abbassato il finestrino giusto in tempo per vederlo toccarsi il cappello in segno di saluto.

«Buonasera, signore.»

«Buonasera, agente.»

«Mi favorisce la patente e il libretto della macchina, per favore?»

Russell aveva teso i documenti della vettura, il certificato di noleggio e la patente. L’agente con le insegne della Ross County li aveva esaminati, senza restituirglieli. Era un tipo tarchiato, con un naso largo e la pelle butterata.

«Da dove viene, signor Wade?»

«Da New York. Sono appena atterrato al Ross County Airport.»

La smorfia che ne aveva avuto in cambio gli aveva fatto capire il suo errore. Forse l’agente apparteneva alla stessa scuola di pensiero del signor Balling.

«Signor Wade, temo che ci sia un problema.»

«Quale?»

«Lei andava come una palla di fucile. E dal suo fiato mi pare che andasse come una palla di fucile un poco alticcia.»

«Agente, non sono ubriaco.»

«Questo lo vedremo subito. Basterà che soffi in un palloncino, come faceva da bambino.»

Era sceso dalla Mercedes, aveva seguito l’agente alla sua macchina.

Aveva fatto quello che gli chiedeva ma purtroppo il risultato non era stato lo stesso dell’infanzia. La riserva personale di whisky di Jenson Wade non aveva consentito al suo fiato di essere come quello di quando era un ragazzino.

L’agente lo aveva guardato con aria soddisfatta.

«Deve venire con me. Lo fa con le buone o devo metterle le manette? Le ricordo che la resistenza all’arresto è una aggravante.»

Russell lo sapeva fin troppo bene. Aveva imparato a sue spese quell’ultimo dettaglio.

«Le manette non servono.»

Con buona pace del signor Mailing, aveva lasciato la Mercedes in una piazzola ed era salito sulla macchina di pattuglia. Mentre scendeva dall’auto al 28 di North Paint Street, un pensiero lo aveva confortato.

Stava cercando l’ufficio dello sceriffo e in qualche modo c’era arrivato.

Il rumore di un passo nel corridoio lo fece alzare e avvicinare alle sbarre.

Poco dopo un uomo in divisa si fermò davanti alla porta della cella.

«Russell Wade?»

«Sono io.»

Senza cortesia, l’agente gli fece un cenno con la testa dai capelli radi.

Sembrava il fratello buono del tipo che dormiva russando nel letto di fianco.

Forse lo era.

«Vieni, sono arrivati i rinforzi.»

Dopo lo scatto della serratura e il cigolio dell’inferriata, si trovò a seguire l’uomo nel corridoio. Si fermarono davanti a una porta in legno sulla quale c’era scritto che Thomas Blein era lo sceriffo della Ross County. L’agente bussò e aprì subito dopo. Gli fece cenno di entrare e richiuse il battente alle sue spalle. Russell aveva vissuto una situazione pressoché identica il giorno prima. Avrebbe voluto dire all’agente che era felice di non aver ricevuto le stesse attenzioni della segretaria di suo padre ma lo ritenne quanto meno inopportuno.

Nell’ufficio c’erano due uomini e un vago aroma di sigaro. Uno era seduto dietro una scrivania carica di fogli ed era senza ombra di dubbio quel Thomas Blein di cui parlava la scritta sulla porta. Alto, capelli folti e bianchi, un viso sereno ma deciso. Il fisico asciutto era valorizzato dalla divisa e le conferiva nello stesso tempo la giusta importanza.

Quello seduto sulla sedia proprio davanti alla scrivania era un avvocato.

Non ne aveva l’aspetto ma il fatto che fosse lì e le parole dell’agente glielo facevano supporre. La conferma arrivò quando il tipo dall’aria paciosa ma dagli occhi acuti si alzò in piedi e gli tese la mano,

«Buongiorno, signor Wade. Sono Jim Woodstone, il suo avvocato.»

La sera prima, aveva approfittato dell’unica telefonata concessa per chiamare l’aereo al numero che l’hostess gli aveva dato. Dopo aver spiegato la situazione in cui si trovava, aveva chiesto di mettersi in contatto con suo padre e metterlo al corrente. Le era sembrato che Sheila Lavender non fosse del tutto sorpresa di quello che le aveva riferito.

Russell strinse la mano al legale.

«Lieto di conoscerla, avvocato.»

Russell si rivolse poi all’uomo dietro la scrivania.

«Buongiorno, sceriffo. Mi dispiace di averle creato qualche inconveniente. Non era mia intenzione.»

Alla luce di ciò che era noto di lui, quell’atteggiamento remissivo doveva avere sorpreso entrambi i due uomini di legge, che si trovarono per un istante dalla stessa parte della barricata. Blein gli fece un semplice cenno interrogativo con la testa.

«Lei è Russell Wade, quello ricco?»

«Mio padre è quello ricco. Io sono quello scapestrato e diseredato.»

Lo sceriffo sorrise alla descrizione breve ed esauriente che Russell aveva dato di se stesso.

«Lei è una persona molto discussa. Penso a ragione. È così?»

«Be’, direi di sì.»

«Di cosa si occupa nella vita?»

Russell sorrise.

«Quando non impiego il mio tempo a farmi arrestare, sono un giornalista.»

«Per che giornale lavora?»

«Per nessuno, attualmente. Sono un free-lance.»

«E cosa l’ha portata a Chillicothe?»

L’avvocato Woodstone intervenne. Professionale e guardingo. Doveva in qualche modo giustificare la parcella che avrebbe mandato alla Wade Enterprise.

«Signor Wade, non è tenuto a rispondere, se non lo ritiene opportuno.»

Russell con la mano gli fece un gesto a significare che andava tutto bene e soddisfo la curiosità dello sceriffo. In questo caso era facile, bastava dire la verità.

«Sto facendo un servizio sulla guerra del Vietnam.»

Blein inarcò un sopracciglio, con un fare vagamente cinematografico.

«Interessa ancora a qualcuno?»

Più di quanto tu possa immaginare…

«Ci sono cose rimaste in sospeso che secondo me è giusto che il pubblico sappia.»

Vide posata sulla scrivania di fianco allo sceriffo una pesante busta di carta marrone. Gli pareva quella dove la sera precedente avevano infilato il contenuto delle sue tasche, qualche minuto prima di fargli le foto segnaletiche, prendergli le impronte digitali e sbatterlo in cella.

«Sono i miei esigui averi, quelli?»

Lo sceriffo prese la busta e la aprì. Ne estrasse il contenuto e lo mise sul piano della scrivania davanti a lui. Quando Russell si avvicinò vide che non mancava niente. Orologio, portafoglio, chiavi della Mercedes…

L’occhio dello sceriffo cadde sulla fotografia del ragazzo con il gatto. Il suo viso aveva l’impronta di un punto interrogativo quando si alzò dallo schienale della sedia e si appoggiò con i gomiti sulla scrivania.

«Posso?»

Russell rispose di sì senza nemmeno capire bene quello che aveva autorizzato.

Lo sceriffo la prese e la guardò un istante. Poi la ripose di nuovo fra gli oggetti personali di Russell.

«Mi dice come fa ad avere questa foto, signor Wade?»

Subito dopo aver posto la domanda, Blein si girò a dare una significativa occhiata all’avvocato.

«Naturalmente può anche non rispondere, se non lo ritiene opportuno.»

Russell bloccò la replica dell’avvocato e si lanciò nel vuoto.

«Secondo le mie informazioni questo ragazzo è morto in Vietnam e si chiamava Matt Corey.»

«Esatto.»

Quella parola suonò alle sue orecchie come l’apertura di un solido paracadute.

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