Ecco. Ora sarebbe salito a togliersi i vestiti. Avrebbe svegliato Precious e avrebbe guardato con lei il suo video, poi sarebbe sceso per mettersi al
lavoro, nudo nella cantina calda, nudo come il giorno che era nato.
Si sentiva quasi afferrare dalle vertigini mentre saliva le scale. Si spogliò in fretta e indossò la vestaglia. Poi inserì la videocassetta.
«Precious, vieni qui, Precious. Oggi abbiamo tanto tanto da fare. Vieni, tesoruccio.» Avrebbe dovuto rinchiuderla lassù in camera da letto mentre sbrigava la parte più rumorosa del suo lavoro in cantina... Precious odiava il chiasso e si agitava terribilmente. Per tenerla occupata, le aveva comprato una scatola di Chew-eez mentre era fuori a far spese.
«Precious.» Poiché la cagnolina non venne, si affacciò nel corridoio per chiamarla. «Precious!» Poi la chiamò in cucina e in cantina. «Precious!» Quando la chiamò dalla porta della camera della segreta, ebbe una risposta.
«È quaggiù, figlio di puttana» disse Catherine Martin.
Jame Gumb fu sopraffatto da un'ondata di paura per Precious. Poi la rabbia gli restituì le forze. Con i pugni contro le tempie, appoggiò la fronte alla porta e cercò di riprendersi. Un suono che era una via di mezzo tra un gemito e un conato di vomito gli sfuggì dalle labbra, e la cagnolina rispose con un guaito.
Gumb andò in laboratorio a prendere la pistola.
Lo spago del bugliolo era spezzato. Non capiva ancora come avesse fatto, quella. L'ultima volta che lo spago s'era rotto, aveva supposto che lei avesse tentato assurdamente di arrampicarsi. Anche le altre l'avevano tentato... avevano fatto tutte le cose più pazzesche che si potessero immaginare.
Si affacciò all'apertura e parlò con voce rigorosamente controllata.
«.Precious, stai bene? Rispondimi.»
Catherine diede un pizzicotto al grasso didietro della cagnetta, che guai e la ricambiò mordendole leggermente il braccio.
«Allora?» chiese Catherine.
A Jame Gumb sembrava assai poco naturale parlare in quel modo a Catherine ma riuscì a superare il disgusto.
«Calerò una cesta. E tu ce la metterai dentro.»
«Cala un telefono, altrimenti le spezzerò il collo. Non voglio farti del male, non voglio fare del male a questa cagnetta. Dammi un telefono.»
Jame Gumb alzò la pistola. Catherine vide la canna che si protendeva al di là della luce. Si acquattò, tenendo la cagnetta sollevata e muovendola tra sé e l'arma. Sentì che Gumb armava la pistola.
«Spara, maledetto bastardo. Sarà meglio che mi ammazzi in fretta o io le spezzo il collo, lo giuro.»
Mise la barboncina sotto il braccio, le prese il muso in una mano e le sollevò la testa. «Tirati indietro, figlio di puttana.» La cagnetta guaì. La pistola scomparve.
Catherine si scostò i capelli dalla fronte madida con la mano libera. «Non volevo insultarti» disse. «Calami un telefono. Un telefono funzionante. Tu puoi andartene, non m'interessi, non ti ho mai visto. Avrò cura di Precious.»
«No.»
«Non le mancherà niente. Pensa a lei, non soltanto a te stesso. Se spari qui dentro, comunque vada diventerà sorda. Io voglio solo un telefono funzionante. Procurati una prolunga, procurane cinque o sei e collegale tutte insieme... hanno le prese e le spine e poi cala il telefono quaggiù. Ti spedirò la cagnetta per via aerea, dovunque vorrai. La mia famiglia ha dei cani, mia madre vuol bene ai cani. Puoi scappare, non m'interessa quello che fai.»
«Non avrai più acqua. Hai bevuto la tua ultima acqua.»
«Non ne berrà più neanche lei, e non gliene darò della mia bottiglia. Mi dispiace dovertelo dire... credo che abbia una zampa rotta.» Era una bugia: la cagnetta, insieme al secchio con l'esca, le era piombata addosso, ed era stata Catherine a ritrovarsi con una guancia graffiata dalle unghie frenetiche della bestiola. Non poteva metterla a terra, o l'uomo si sarebbe accorto che non zoppicava. «Soffre. Ha la zampa tutta storta e cerca di leccarla. Mi dà la nausea» mentì Catherine. «Devo portarla da un veterinario.»
Il gemito di rabbia e di angoscia di Gumb fece guaire la cagnolina. «Tu pensi che lei soffra» disse Jame Gumb. «Tu non sai cos'è la sofferenza. Provati a farle del male e ti bucherò.»
Quando lo sentì salire precipitosamente le scale, Catherine Martin si mise a sedere, scossa da un tremito violento. Non riusciva a tenere la cagnolina, non riusciva a tenere la bottiglia dell'acqua, non riusciva a tenere niente.
Quando la barboncina le si arrampicò sulle ginocchia, l'abbracciò, grata per quel tepore.
Le piume galleggiavano sull'acqua marrone: piume arricciate che giungevano dalle colombaie, portate dai refoli di vento che facevano rabbrividire la superficie del fiume.
Le case di Fell Street, la via di Fredrica Bimmel, venivano indicate come residenze sul lungofiume nei cartelli sciupati delle agenzie immobiliari perché i loro giardinetti sul retro terminavano su un braccio morto del fiume Licking a Belvedere, Ohio, una città di 112.000 abitanti nella cosiddetta Cintura della Ruggine, a est di Columbus.
Era una zona squallida di case vecchie e grandi. Alcune erano state acquistate a poco prezzo da giovani coppie e rimodernate con la vernice a smalto, e al loro confronto le altre facevano una figura ancora più triste. La casa dei Bimmel non era stata rimodernata.
Clarice Starling si soffermò per un momento nel cortile di Fredrica e guardò le piume sull'acqua, affondando le mani nelle tasche dell'impermeabile. C'era un po' di neve marcia tra le canne, azzurra sotto il cielo azzurro di quella mite giornata d'inverno.
Dietro di lei sentiva il padre di Fredrica che lavorava di martello nella città delle piccionaie che saliva dalla riva dell'acqua e giungeva fin quasi alla casa. Non aveva ancora visto il signor Bimmel. I vicini le avevano detto che era lì. I loro volti si erano chiusi, quando gliel'avevano detto.
Clarice Starling era un po' disorientata. Quando, durante la notte, aveva capito che doveva lasciare l'Accademia per dare la caccia a Buffalo Bill, tanti rumori estranei erano cessati. Ora sentiva un silenzio nuovo e puro al centro della sua mente, una grande calma. Ma tra i suoi pensieri affiorava come la consapevolezza di aver marinato la scuola e di essere una sciocca.
Le piccole seccature della mattina non l'avevano toccata... né il lezzo da palestra a bordo dell'aereo per Columbus, né l'inettitudine confusionaria dell'agenzia di autonoleggio. Aveva alzato la voce con l'impiegato per costringerlo a darsi da fare, ma non aveva provato nessuna sensazione.
Clarice Starling aveva pagato un alto prezzo per avere quel tempo a disposizione e intendeva servirsene come riteneva più opportuno. Da un momento all'altro quel tempo sarebbe scaduto: se Crawford fosse stato scavalcato e le avessero ritirato le credenziali.
Doveva affrettarsi: ma pensare al perché, pensare alla situazione di Catherine in quell'ultimo giorno, avrebbe significato sprecare interamente la giornata. Pensare a lei nel tempo reale, proprio mentre veniva trattata come Kimberly Emberg e Fredrica Bimmel, avrebbe bloccato la sua capacità di pensare.
La brezza cadde, l'acqua divenne immota. Vicino ai suoi piedi, una piuma arricciata roteava sospinta dalla tensione superficiale. Tieni duro, Catherine.
Clarice Starling si strinse il labbro tra i denti. Se Buffalo Bill le avesse sparato, c'era da augurarsi che la uccidesse al primo colpo.
Insegnaci la partecipazione e l'indifferenza.
Insegnaci a tacere.
Clarice si voltò verso le piccionaie e seguì un sentiero di tavole disposte sul fango, per raggiungere il suono del martello. C'erano centinaia di piccioni di ogni dimensione e colore, alcuni alti e zampettanti, altri con il petto in fuori. Con gli occhi vivaci, le teste che si muovevano a scatti mentre camminavano, allargavano le ali al sole pallido ed emettevano suoni dolci al suo passaggio.
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