Zio Fedja non ha approvato la generosa decisione di Gagarin di dare mezza giornata ai ragazzi del Centro per raccogliere informazioni all’insaputa del Guardiano.
— Per amore di Gesù Cristo, — ha commentato, — ma che c’importa se il Guardiano se la prende con loro? Farebbe so lo bene, perché sono degli incompetenti. Questa gente del Centro pensa solo a saltare sulle donne e a giocare a carte, si vestono come delle scimmie, sembrano zingari da quanto oro hanno addosso, e poi, quando nella loro zona succede qualcosa, rimangono con la merda tra le gambe a puzzare davanti a tutta la città… No, voi adesso andate direttamente dal Guardiano e gli dite che se lui non vi porta entro stasera quei deficienti che hanno combinato casino nella sua zona, mentre lui e i suoi dormivano, voi informerete della cosa tutte le autorità… Vedrete che ve li porteranno su un piattino con il bordo azzurro, vedrete…
Mentre diceva tutte ’ste cose, io già m’immaginavo la scena. Neanche voleva riceverci, il Guardiano del Centro, figuriamoci se potevamo arrivare a rimproverarlo e minacciarlo. Però, come diceva sempre la buonanima di mio zio, «chi non rischia, non beve champagne».
Ringraziando zio Fedja per l’accoglienza, i preziosissimi consigli e i soldi per aumentare la taglia, siamo andati a ricongiungerci al resto del nostro gruppo per pianificare l’appuntamento con la gente del Centro.
Il ritrovo con gli altri era al bar del vecchio Prugna, un criminale che da tanto tempo non partecipava più a nessuna attività e gestiva solamente il suo bar, cioè stava sempre seduto a un tavolino, a bere о mangiare qualcosa, mentre due giovani ragazze, le sue nipoti, lavoravano.
Prugna in città era famoso per la vita difficile e piena di dolori che aveva avuto. Non veniva da una famiglia criminale: i suoi genitori erano persone istruite, intellettuali, il padre faceva lo scienziato nel campo delle ricerche chimiche, e la madre insegnava letteratura all’università di Mosca. Alla fine degli anni Trenta, quando il regime di Stalin aveva scatenato un’ondata di terrore, i suoi erano stati arrestati e proclamati nemici del popolo. Il padre lo avevano accusato di avere rapporti con spie americane e inglesi, la madre di propaganda antisovietica. Tutta la famiglia, compresi i due bambini — Prugna, che a quel tempo aveva dodici anni, e la sua sorellina Lesja, che aveva poco più di tre anni —, era stata deportata nel lager di Vorkutà. Li i compagni comunisti, patrioti e costruttori della pace in tutta la terra, praticavano sui prigionieri politici le torture più disumane. Il padre di Prugna, che era molto debole fisicamente, era morto già in treno, per le botte e per via di una forte polmonite. Una volta arrivati a Vorkutà, la madre e i due bambini non erano stati separati, ma solo perché il blocco dei bambini non era ancora stato costruito. Avevano vissuto in quel posto per tanto tempo, vedendo morire molta gente intorno a loro, di freddo, malattie, parassiti, maltrattamenti e denutrizione.
Prugna raccontava che un giorno lui, sua sorella e sua madre erano stati portati in un posto dove operava la cosiddetta «squadra speciale d’indagatori interni»: un branco di macellai che torturavano la gente già condannata, ma non per avere informazioni, per ragioni «rieducative». La madre era stata obbligata a spogliarsi e a svestire i suoi bambini davanti alle guardie, dopo di che quelli avevano cominciato a picchiarla, mettendo i bambini in un angolo e costringendoli a guardare come veniva torturata la loro madre. Poi quegli animali hanno preso Prugna e hanno improvvisato un gioco: gli hanno detto che se la madre non rompeva con le sue mani il mignolo della sorellina, loro avrebbero rotto tutte le dita a lui, una a una. In un lungo e terribile processo di tortura, gli hanno rotto ben sei dita davanti alla madre. Lui raccontava che era terrorizzato e che continuava a urlare che non ce la faceva più, e che a un certo punto la madre, in una crisi di pazzia e disperazione, aveva preso la piccola Lesja, che teneva tra le sue braccia, e le aveva sbattuto la testa contro il muro. Poi aveva tentato di uccidere anche lui, ma gli sbirri erano riusciti a fermarla e l’avevano picchiata brutalmente. Non sarebbe mai più uscita viva da quel blocco.
Prugna era stato buttato fuori, sulla neve, a crepare al freddo, con le dita rotte e mezzo morto. Lui diceva che sperava solamente di morire il più presto possibile, e per questa ragione aveva cominciato a mangiare la neve, per congelarsi più in fretta. Vicino a quel posto in quel momento lavorava un gruppo di prigionieri comuni, criminali, che tagliavano la legna per le costruzioni delle baracche che servivano ad allargare il lager. Quando hanno visto quel bambino nella neve l’hanno raccolto e preso sotto la loro custodia. Le guardie hanno chiuso un occhio perché i prigionieri comuni nei lager — almeno all’inizio, prima che il sistema penitenziario sovietico diventasse una specie di meccanismo perfetto, una catena industriale — venivano trattati diversamente da quelli politici, l’amministrazione li temeva perché erano uniti e mol-to organizzati, e volendo potevano provocare delle vere e proprie rivolte.
Così Prugna è andato a vivere con quelli nelle baracche. Uno di loro gli ha fatto guarire le dita rotte mettendogli delle stecche di legno morbido, e fasciandole accuratamente. I criminali da quel giorno si sono presi cura di lui, l’hanno educato. L’hanno chiamato «Prugna» per il colore della sua faccia, che era sempre blu perché lui aveva sempre freddo.
A quindici anni Prugna è diventato «esecutore» della banda che lo aveva trovato e accolto. All’interno del lager era cominciata una guerra tra criminali: quelli che sostenevano le vecchie autorità — tra cui gli amici di Prugna — e quelli che si autoproclamavano nuove autorità e proponevano delle nuove regole. Questi ultimi erano in maggioranza, arrivavano dalle classi sociali più basse e appartenevano alla generazione degli orfani di guerra; rappresentavano insomma una realtà criminale mai vista prima, lì come in tutta la Russia, dov’erano rispettate caratteristiche come l’ignoranza, la ferocia, l’assenza di leggi morali. Di notte, Prugna e i suoi entravano nelle baracche degli zijani — i criminali giovani e spregiudicati — e li ammazzavano, accoltellandoli nel sonno. Prima che quelli potessero realizzare che cosa stava succedendo, avevano già fatto fuori metà della baracca.
Prugna ha ucciso tante persone; la sparo grossa, ma credo che forse si è salvato proprio per questo. Forse in quel modo, nonostante il gravissimo trauma infantile, è riuscito a restare sano di mente dando sfogo alla sua rabbia.
E stato in tante galere e ha vissuto tanto tempo anche da uomo libero, facendo sempre l’esecutore criminale. Ha sposato una brava donna, ha avuto tre figli e due figlie. Sulla mano destra, dove gli avevano rotto le dita, portava tatuato un teschio con il cappello da poliziotto. Sulla fronte una scritta, «Az vozdam», che in antica lingua russa significa «Mi vendicherò».
Non so se si è vendicato, ma non ha fatto altro che uccidere poliziotti. Aveva una collezione sterminata di distintivi degli agenti di polizia e delle forze dell’ordine che aveva fatto fuori in tutta la sua carriera: li teneva su un grande comò, nell’angolo rosso di casa sua, sotto le icone, dove c’era anche la foto della sua famiglia con una candela sempre accesa davanti.
L’ho vista coi miei occhi, quella collezione. Era impressionante. Tantissimi distintivi di tutti le epoche, dagli anni Cinquanta fino alla metà degli anni Ottanta, alcuni sporchi di sangue, altri bucati dalle pallottole. C’erano proprio tutti: poliziotti dei distretti delle varie città della Russia, gruppi speciali di lotta contro la criminalità organizzata, agenti del Kgb, polizia penitenziaria, agenti della Procura.
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