Data la loro posizione nella nostra società, ritenevo molto importante metterli al corrente di quello che era accaduto. Anche se non avrebbe portato a niente di decisivo per le nostre ricerche, era pur sempre un segno di rispetto da parte nostra, grazie al quale potevamo sperare in un aiuto secondario, a livello di logistica о di elaborazione delle informazioni.
Così, siamo arrivati a casa del Santo. Era una specie di condominio, con un cortile e un bel giardino pieno di tavolini e panchine. Secondo l’antica tradizione, il portone era sradicato e buttato a terra, proprio davanti all’ingresso, come segno che quella casa era aperta a tutti: infatti c’era sempre qualche ospite, la gente veniva da tutte le parti dell’ex Urss a trovare il Santo e i suoi amici.
Anch’io ero stato spesso ospite in quella casa, perché mio padre era un buon amico di zio Fedja, avevano fatto degli affari insieme e avevano la stessa passione per i colombi. Mio padre gli regalava dei colombi perché lui non poteva comprare niente per sé: il Santo li teneva li ma diceva che erano di mio padre, e se parlando mi scappava un complimento a uno dei «suoi» colombi, zio Fedja mi correggeva sempre, dicendo che quei colombi non erano suoi, e che li teneva lui solamente perché a casa nostra non c’era posto.
Zio Fedja era come al solito sul tetto, dove teneva, in una costruzione apposita, «i colombi di mio padre». Mi ha visto e mi ha fatto cenno di salire, io gli ho indicato la mia compagnia e lui ha ripetuto il gesto, invitandoci tutti su. Siamo entrati in casa e abbiamo fatto tre piani di scale, salutando tutte le persone che incontravamo, finché non siamo arrivati alla porta che dava sul tetto. Prima di aprirla ci siamo tolti le armi che avevamo addosso, lasciandole sulla mensola dove c’era il secchio con il cibo per i colombi. Secondo la regola è vietato presentarsi davanti a un Santo armati. Neanche con un coltello, ed è importante sottolinearlo: perché di solito il coltello è trattato come un oggetto di culto tipo la croce, che va portata sempre addosso; eppure anche il coltello dev’essere lasciato da parte quando s’incontra un Santo, per rimarcare la posizione di ogni criminale rispetto al suo potere, che è più grande di quello della forza e del denaro.
Mentre lasciavamo le pistole e i coltelli, Mei mi ha visto posare sulla mensola la Nagant di nonno Kuzja. Ha fatto una faccia tutta stupita, perché di solito Mei sapeva sempre se io avevo un’arma nuova, e scoprire che non gliel’avevo mostrata prima gli ha fatto venire un crampo. Era quasi offeso, quando mi ha chiesto dove l’avevo presa.
— Te lo racconto dopo, — gli ho detto, — è una storia lunga.
Mi sono accorto che il suo unico occhio mi guardava con sommo disprezzo.
Ho aperto la porticina e finalmente siamo saliti per la stretta scala che portava al tetto. Zio Fedja era H, in mezzo ai colombi che stavano becchettando dei chicchi di grano, e teneva in mano una coppia di colombi. Ho notato che erano di razza Baku, quindi volavano e soprattutto «picchiavano» bene, cosi chiamiamo il modo che hanno i maschi di alcune razze di mostrare la loro agilità per attirare l’attenzione delle femmine.
Abbiamo salutato zio Fedja, i miei amici si sono presentati. Come vuole la tradizione, prima dovevo parlare un po’ di cose che non c’entravano niente con la nostra visita: non è solo una regola formale, lo si fa anche per capire lo stato d’animo dell’altro e vedere se quello è il momento giusto per discutere la questione che ti sta a cuore. Così gli ho chiesto della sua salute, ho parlato un po’ di colombi, finché lui non mi ha domandato cosa mi aveva portato lì.
— Sono venuto per una «parolina», — gli ho risposto.
Nei discorsi, soprattutto con persone importanti del mondo criminale, si usa parlare con ironia dei problemi che devi risolvere con il loro aiuto. Allo stesso modo anche le autorità non affrontano mai discorsi sulla loro vita о su qualche questione personale come se fossero cose della massima importanza: trattano se stessi con leggerezza e umiltà. Ad esempio, se chiedi a un criminale come vanno i suoi affari, lui ti risponderà in maniera ironica che i suoi affari sono tutti sot-to indagine da parte della Procura, e che lui si occupa solo di inezie, sciocchezze, cose da nulla.
Per questo ero costretto a presentare il nostro problema con un po’ d’indifferenza, dicendo che ero venuto per una «parolina», una cosa di nessun peso, poco importante.
Lui mi ha sorriso, e mi ha detto che sapeva già tutto. Mi ha chiesto di raccontargli come stavano andando le nostre ricerche. In breve, senza entrare troppo nei particolari, gli ho spiegato la situazione; lui ascoltava tranquillo, con pazienza, ma ogni tanto gli scappava un respiro pesante.
Quando ho finito è stato immobile per un po’, a pensarci su, poi improvvisamente ha detto che era meglio se scendevamo sotto a prendere un cifir seduti attorno al tavolo, perché «difficilmente la verità si trova stando in piedi».
Siamo scesi con lui, al tavolo c’erano già due vecchi criminali che zio Fedja ci ha subito presentato: erano suoi ospiti, venivano da un piccolo villaggio siberiano sul fiume Amur.
Ha avuto inizio la cerimonia del tè.
Zio Fedja si è messo personalmente a preparare il cifir. Aveva tutti i denti scuri, quasi neri: segno inconfondibile dei consumatori appassionati di cifir. Dopo aver scaldato l’acqua sulla stufa a legna, ha tolto il cifirbak dal fuoco, l’ha messo sul tavolo e ci ha buttato dentro un intero pacchetto di tè di Irkutsk.
Aspettando che il cifir fosse pronto, zio Fedja ha raccontato la nostra storia ai suoi ospiti, che lo ascoltavano con tristezza. Uno dei due, un uomo grande e grosso con la faccia tatuata, ogni volta che sentiva nominare Ksjusa si faceva il segno della croce.
Zio Fedja ha versato il cifir nel bicchiere, ha bevuto tre grossi sorsi e l’ha passato a me. Era forte e bollente e «prendeva» bene: si dice cosi quando il cifir fa subito effetto, dando una leggera sensazione di aria in testa. Abbiamo fatto girare il cifir tre volte; Mei ha bevuto l’ultimo sorso, poi ha lavato il bicchiere, come chiede la tradizione.
Alla fine zio Fedja ha messo sul tavolo un piatto pieno di caramelle, perfette per stemperare il forte gusto di cifir che rimaneva in bocca. Le mie preferite erano quelle al gusto di kljucva, una bacca molto acida che cresce su piccoli cespugli nel nord della Russia, esclusivamente nelle zone paludose. Mangiando le caramelle, abbiamo ripreso a parlare.
Zio Fedja ha detto che chi gestiva i suoi locali sapeva già tutto, e che se fosse saltata fuori qualche notizia interessante alla «Gabbia» — che era la più grande e spettacolare discoteca della città, frequentata da tantissima gente — di sicuro lui ce l’avrebbe comunicato immediatamente.
Poi ha messo sul tavolo il suo personale contributo alla causa. Uno dei suoi ospiti l’ha subito imitato, portando un pacco di dollari, ben diecimila; senza dire niente, il gigante siberiano con la faccia tatuata che si chiamava «Zoppo» ne ha aggiunti altri cinquemila.
Zio Fedja ci ha dato anche un paio di dritte: ci ha consigliatoci ripassare dal quartiere Barn.
— E difficile fare un discorso onesto con quella gente, meglio la politica del terrore, — ha detto strizzandomi l’occhio.
— Insomma, se ti scappa qualche colpo, se qualcuno di loro per caso ci rimane secco, non sarà un male, tanto si ammazzerebbero lo stesso tra di loro, prima о poi. Se gli metti paura invece cominceranno a muoversi seriamente, e chissà, in mezzo all’immondizia che abita lì forse troveranno il vostro uomo.
Poi ci ha consigliato di fare più pressione sulla gente del Centro, perché in fondo una parte della colpa ce l’aveva anche chi abitava H, se la ragazza era stata violentata nel loro territorio. Secondo lui (e gente come lui sbagliava raramente), tutti i responsabili del Centro potevano tranquillamente «scrivere le lettere a casa», cioè prepararsi a un violento scontro con l’ignoto.
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