Sweeney e O'Gorman entravano e uscivano dalla sala operativa: tabulati telefonici di Rosalind, profili di lei e di Damien ottenuti da altri interrogatori. Li mandavo nella stanza degli interrogatori. O'Kelly fece capolino e mi guardò male: finsi di essere intento a spulciare intercettazioni. A metà pomeriggio, Quigley entrò per discutere del caso. A parte il fatto che non avevo voglia di parlare con nessuno in generale, meno che mai di parlare con lui, era un cattivo segno: l'unico vero punto di forza di Quigley è un infallibile sesto senso per le sconfitte degli altri. A parte qualche sporadico tentativo di risultarci simpatico, fino a quel momento aveva lasciato in pace sia me sia Cassie, dedicandosi a dare il tormento ai novellini, ai colleghi alla soglia della pensione o comunque a quelli la cui carriera era andata improvvisamente a rotoli. Prese una sedia e me la mise troppo vicina, accennando cupamente al fatto che avremmo dovuto prenderlo settimane fa, il nostro uomo, che lui avrebbe saputo darmi delle dritte utili se solo gliele avessi chieste, e sottolineando tristemente il mio inspiegabile errore psicologico nel consentire a Sam di prendere il mio posto nell'interrogatorio. Chiese dei tabulati telefonici di Damien e poi suggerì astutamente che avremmo dovuto prendere in considerazione l'ipotesi che potesse esserci il coinvolgimento della sorella. Mi scoprii improvvisamente incapace di liberarmene e questo aumentò in me la sensazione che la sua presenza non fosse soltanto fastidiosa ma anche sinistramente infausta. Era come un grosso uccello del malaugurio che berciasse inutilmente sulla mia scrivania imbrattandomi tutti i documenti.
Finalmente, come i bulletti a scuola, sembrò rendersi conto che ero messo troppo male perché valesse la pena tormentarmi, così ritornò a fare quello che stava facendo prima, assumendo un'aria offesa che dilagò sui suoi lineamenti dilatati e piatti. Smisi di fingere di archiviare le intercettazioni e andai alla finestra, dove rimasi per qualche ora, a guardare la pioggia e ad ascoltare il debole rumore familiare della squadra, alle mie spalle: la risata di Bernadette, lo squillare dei telefoni, le voci maschili che si alzavano di tono, bellicose, e si smorzavano subito allo sbattere di una porta.
Erano le sette e venti quando sentii finalmente Cassie e Sam nel corridoio. Le loro voci erano troppo basse perché potessi capire le parole, ma riconoscevo il tono. È buffo come il cambiare di una prospettiva possa farti notare le cose: non mi ero mai reso conto di quanto fosse profonda la voce di Sam fino a quando non l'avevo sentito interrogare Damien.
«Voglio andare a casa» disse Cassie, entrando nella sala operativa. Si lasciò cadere su una sedia e appoggiò la testa sulle mani intrecciate sul tavolo.
«È quasi finita» disse Sam. Non era chiaro se si riferisse alla giornata o all'indagine. Fece il giro del tavolo e si sedette anche lui. Passando, con mia immensa sorpresa, appoggiò brevemente la mano sulla testa di Cassie.
«Com'è andata?» chiesi, con una nota innaturale nella voce.
Cassie non si mosse. «Molto bene» disse Sam. Si stropicciò gli occhi, facendo una smorfia. «Credo che ce l'abbiamo fatta a chiarire le cose, almeno per quello che riguarda Donnelly.»
Suonò il telefono. Era Bernadette che ci diceva di restare nella sala operativa perché O'Kelly voleva vederci. Sam annuì e si lasciò cadere pesantemente su una sedia, a ginocchia larghe, come un contadino che torna da una giornata di lavoro nei campi. Cassie sollevò la testa con grande sforzo e prese dalla tasca posteriore il suo taccuino sgualcito.
Com'era sua abitudine, O'Kelly ci fece aspettare per un po'. Nessuno di noi parlò. Cassie scarabocchiò sul taccuino un alberello appuntito e vagamente sinistro. Sam rimase appoggiato al tavolo con lo sguardo perso sulla lavagna piena di scritte. Io me ne stavo alla finestra, a guardare fuori, verso il giardino ordinato e immerso nel buio dove piccole folate di vento scuotevano di tanto in tanto le siepi. La nostra posizione nella stanza sembrava predisposta ad arte da un regista, con grande equilibrio di spazi, significativa in un modo oscuro e inquietante. Lo sfarfallio e il ronzio delle luci al neon mi avevano messo quasi in uno stato di trance. Cominciavo a sentirmi come in un'opera teatrale esistenzialista, con il ticchettio di un orologio che avrebbe segnato per sempre le 19.38 e noi che non avremmo mai più potuto muoverci da quelle pose predestinate. Quando alla fine O'Kelly aprì la porta, fragorosamente, fu quasi uno shock.
«Prima di tutto» disse cupo, prendendo una sedia e dando una manata su una pila di fogli che erano sul tavolo. «O'Neill, che cosa hai intenzione di fare con tutto quel casino di Andrews?»
«Lo lascio perdere» disse Sam, tranquillo. Sembrava molto stanco. Non che avesse borse sotto gli occhi o cose del genere, chiunque non lo conoscesse avrebbe detto che era in forma, ma la sua sana rudezza campagnola era sparita e aveva un'aria terribilmente giovane e vulnerabile.
«Ottimo. Maddox, ti tolgo cinque giorni di ferie.»
Cassie sollevò lo sguardo per un attimo. «Sì, signore.» Cercai di scoprire, di nascosto, se Sam apparisse sorpreso o se sapesse già di cosa si trattava, ma il suo viso rimase impassibile.
«E, Ryan, sei assegnato al lavoro di scrivania fino a nuovo ordine. Non so come abbiate fatto voi tre capolavori a incastrare Damien Donnelly, ma potete ringraziare la vostra buona stella di esserci riusciti, altrimenti la vostra carriera sarebbe messa ancora peggio di com'è ora. Tutto chiaro?»
Nessuno di noi ebbe l'energia di rispondere. Mi staccai dalla finestra e mi misi a sedere, il più lontano possibile dagli altri.
O'Kelly ci lanciò un'occhiataccia e decise di prendere il nostro silenzio per un assenso. «Bene. A che punto siamo con Donnelly?»
«Direi che stiamo procedendo» disse Sam, quando si rese conto che né io né Cassie avremmo detto niente. «Confessione piena, compresi alcuni particolari che non avevamo ancora recuperato e prove di tipo medico-legale. Credo che l'unico modo di scagionarlo sarebbe chiedere l'infermità mentale… ed è quello che farà, se riesce a trovare un buon avvocato. Adesso si sente una merda e dice di essere colpevole, ma gli passerà di sicuro dopo qualche giorno in cella.»
«La dovrebbero piantare tutti quanti con questa gran cazzata dell'infermità mentale» disse O'Kelly, amaro. «Quei cazzoni che vanno al banco dei testimoni e dicono non è colpa loro. Vostro Onore, mammina li ha costretti a usare troppo presto il cesso invece del vasino e così non sono riusciti a trattenersi e hanno ammazzato la bambinetta… Tutte cagate. Quello non è più matto di me. Fatelo visitare da uno dei nostri e mettete nero su bianco.» Sam annuì e prese nota.
O'Kelly sfogliò le sue carte e ci sventolò sotto il naso un rapporto. «Ora, cos'è questa faccenda della sorella?»
L'aria nella stanza si fece pesante. «Rosalind Devlin» disse Cassie sollevando la testa. «Lei e Damien avevano una storia. Da quello che dice lui, l'idea dell'assassinio è venuta a lei, è stata lei a fargli pressione.»
«Sì, d'accordo. Ma perché?»
«Secondo Damien» disse Cassie con voce pacata, «Rosalind gli avrebbe detto che Jonathan Devlin abusava sessualmente delle sue tre figlie e picchiava Rosalind e Jessica. Katy, che era la sua preferita, lo incoraggiava e a volte causava gli abusi sulle altre due. Rosalind gli diceva che se si eliminava Katy gli abusi sarebbero cessati.»
«Prove a sostegno di questa versione?»
«No, tutto il contrario. Damien sostiene che Rosalind gli avrebbe raccontato che Devlin le aveva fracassato la testa e aveva rotto un braccio a Jessica. Di questo non c'è traccia sulle cartelle cliniche, niente che indichi abusi. Jessica si è rotta il braccio a scuola, davanti a decine di testimoni. E Katy, che secondo questo racconto avrebbe avuto per anni rapporti sessuali con suo padre, è morta vergine.»
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