In The Woods, 2007
Per mio padre, David Trench,
e mia madre, Elena Hvostoff-Lombardi
Forse è solo il brutto leccapiedi di qualcuno. Ma mi sono sempre chiesto… E se fosse realmente Lui e avesse deciso che non valgo la pena?
TONY KUSHNER, Un posto luminoso chiamato giorno
Devo un sacco di ringraziamenti a moltissime persone: Ciara Considine, la mia editor a Hodder Headline Irlanda, che con il suo preciso istinto, la costante gentilezza e l'incrollabile entusiasmo mi ha aiutato a portare a termine questo libro in così tanti modi che mi è impossibile elencarli tutti; Darley Anderson, superagente e creatore di sogni, che mi ha lasciato senza parole in più occasioni di chiunque altro abbia mai incontrato; il suo fantastico team, in particolare Emma White, Lucie Whitehouse e Zoe King; Sue Fletcher di Hodder & Stoughton e Kendra Harpster di Viking, entrambe editor extraordinaires per l'eccezionale fiducia che hanno avuto in questo libro e per aver saputo con certezza come renderlo migliore; Swati Gamble per la sua fenomenale pazienza; tutte le persone a Hodder & Stoughton e Hodder Headline Irlanda; Helena Burling, che con la sua gentilezza ha creato intorno a me il paradiso nel quale ho potuto scrivere; Oonagh "Giunco" Montague, Ann-Marie Hardiman, Mary Kelly e Fidelma Keogh, per avermi tenuto per mano quando ne avevo più bisogno e per avermi mantenuto più o meno sana di mente, mio fratello Alex French, per avermi regolarmente aggiustato il computer; David Ryan, per aver rinunciato ai diritti non-intelletuali; Alice Wood, per aver corretto le mie bozze con occhio di lince; il dottor Fearghas Ó Cochláín, per i suggerimenti medici; Ron e l'Angelo Anonimo, che grazie a qualche tipo di magia grigia ha sempre saputo il momento esatto; Cheryl Steckel, Steven Foster e Deirdre Nolan, per aver letto e incoraggiato; tutta la compagnia del Purple-Heart Theatre Company, per il continuo supporto; e ultimo, ma ben lungi da essere il meno importante, Anthony Breatnach, la cui pazienza, supporto, aiuto e fiducia sono state al di là di ogni possibile parola.
Provate a immaginare un'estate presa in prestito da un film generazionale ambientato negli anni Cinquanta in una piccola cittadina. Una di quelle pellicole con adolescenti che si affacciano alla vita adulta. Non è una delle tipiche stagioni irlandesi appena abbozzate per palati esperti, sfumature acquerello immerse in un microcosmo di nuvole e pioggia sottile. No, è un'estate in piena regola, bizzarra, su un caldo sfondo azzurro puro da serigrafia. È un'estate che ti esplode sulla lingua, che sa di fili d'erba masticati, del tuo odore di sudore pulito, di biscotti Marie con il burro che spunta dai forellini e di bottiglie shakerate di aranciata rossa durante un picnic nella casa sull'albero. Ti freme sulla pelle con il vento della BMX in faccia, con zampette di coccinella che ti risalgono sul braccio. Ti riempie ogni respiro di erba tagliata e fili di bucato che ondeggiano; risuona e zampilla di canti di uccelli, api, foglie e rimbalzi di pallone e cantilene fatte apposta per saltare: "Uno! due! tre!". È un'estate che non finirà mai. Comincia ogni giorno con una cascata di volantini del camioncino che vende gelati, poi continua con il tuo migliore amico che bussa alla porta. Finisce con lunghi e lenti crepuscoli e con le madri, in controluce sulla soglia di casa, che ti chiamano dentro, e tu passi attraverso i pipistrelli che lanciano i loro stridii tra gli alberi disegnati come pizzo nero. È l'Estate che si manifesta in tutto il suo fulgore.
Provate a immaginare un piccolo labirinto ordinato di casette su una collina, a pochi chilometri da Dublino. Il governo ha deciso che un giorno diventerà un meraviglioso esempio di periferia pullulante vitalità, una soluzione progettata alla perfezione contro il sovraffollamento, la povertà e ogni altro male urbano. Per il momento è solo una manciata di bifamiliari tutte uguali, ancora abbastanza nuove da avere un che di sbigottito e sgraziato, appollaiate lì sulla loro collina. Mentre il governo parlava in termini entusiastici di McDonald's e multisale, alcune giovani famiglie, in fuga dalle case operaie e dai bagni esterni che passavano sotto silenzio nell'Irlanda degli anni Settanta, o che sognavano ampi giardini sul retro e strade dove i figli potessero giocare con i gessetti o, ancora, che erano semplicemente alla ricerca di una casa vicina al posto di lavoro quanto lo stipendio di un insegnante o di un autista di autobus potesse permettere, avevano riempito con le loro cose i sacchi neri dell'immondizia e si erano avventurate lungo una stradina non asfaltata a doppio senso, con l'erba e le margherite che ci crescevano in mezzo, dirette verso un inizio nuovo di zecca.
È stato dieci anni fa, e il vago bagliore di luci intermittenti dei negozi in franchising e i centri ricreativi riuniti sotto l'espressione "infrastrutture" non si sono ancora visti. Qualche politico di secondo piano di tanto in tanto alza la voce al Dàil, la Camera dei deputati, senza alcun risultato tangibile, e parla di affari loschi su questi terreni. Gli allevatori fanno ancora pascolare le vacche al di là della strada. La notte si limita ad accendere una rada costellazione di luci sui pendii delle colline vicine; dietro la zona residenziale, dove i progetti di questo indefinito futuro mostrano ancora il centro commerciale e un piccolo e ordinato parco, si estende per un paio di chilometri quadrati un bosco che chissà a quanti secoli prima risale.
Stringiamo l'immagine, seguiamo i tre bambini che si inerpicano sulla sottile cortina di mattoni e malta che separa il bosco dalle bifamiliari. I loro corpi hanno l'economia perfetta della latenza; sono essenziali e per niente impacciati, paiono leggerissime macchine volanti. Hanno tatuaggi bianchi, un lampo, una stella, una A, risultato di cerotti tagliati con quelle forme e lasciati sulla pelle che si abbronza tutt'intorno. Un drappo di capelli biondi chiarissimi si alza in volo: un piccolo punto di appoggio, ginocchio sul muro, su, dall'altra parte e via.
Il bosco è tutto un guizzante tremolio, un mormorio e un'illusione. Il silenzio che lo permea è la cospirazione divisionista di un milione di minuscoli rumori, fruscii, raffiche, strilli senza nome che s'interrompono a metà. È un vuoto che brulica di vita segreta, che ti sfugge via appena oltre la coda dell'occhio. Attento: api sfrecciano dentro e fuori le fessure della quercia inclinata; ti fermi a rivoltare una pietra e, sotto, strane larve si contorcono irritate, mentre una colonna disciplinata di formiche ti si arrampica lungo una caviglia. Alla torre in rovina, roccaforte abbandonata di chissà chi, ortiche spesse come un polso crescono tra le pietre e all'alba i conigli fanno uscire i loro piccoli dalle fondamenta, a giocare su antiche tombe.
L'estate è di questi tre bambini. Conoscono il bosco con la stessa sicurezza con cui conoscono i minuscoli paesaggi delle loro ginocchia sbucciate. Bendali e lasciali in una qualsiasi radura o avvallamento e loro ritroveranno la via d'uscita senza mai mettere un piede in fallo. Questo è il loro territorio e lo governano come fossero giovani animali, selvatici e padroni; si scapicollano tra gli alberi e giocano a nascondino nei recessi del bosco tutto il santo giorno; e anche di notte, nei loro sogni.
Stanno correndo verso la leggenda, verso storie e incubi che si raccontano al campeggio e di cui i genitori non sapranno mai. Lungo sentieri segnati a stento e perduti, che da soli non trovereste mai, schizzando di corsa agli angoli delle mura di pietra crollate, lasciano dietro di sé grida e lacci di scarpe come fossero code di comete. E chi sta sulle rive del fiume con le mani tra i rami del salice, di chi è la risata che dondola e ruzzola da un ramo là in alto, di chi è il volto che scorgi appena tra gli arbusti, fatto di luce e ombre di foglie, apparso e scomparso in un baleno?
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