Matilde Serao - Le amanti
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Così, nell’alba bigia in cui donna Grazia partì da Sorrento per Napoli, mentre aveva detto ai suoi amici che sarebbe partita solamente la sera, in quell’alba bigia, la sua devota cameriera, vedendola andar via, avvolta nel grande mantello bruno, avvolta nel bruno velo che le circondava il capo, il viso, il collo, si chinò, commossa, a baciarle la mano:
– Io la rivedrò, nevvero? – chiese, cercando di trattenere le lacrime.
– Forse – disse donna Grazia, andandosene, senza voltarsi.
Tanto la fatalità li aveva vinti, ambedue.
Donna Grazia non vedeva nè il mite sole che rallegrava le vie di Napoli, nè le azzurrità fini del cielo e del mare, nè la folla lieta che si godeva quel giorno soave: chiusa nella carrozza da nolo, guardando ogni istante il piccolo orologio sospeso alla cintura pur senza vederne l’ora, ella divorava lo spazio con la mente, cercava di ripetere per la millesima volta il calcolo del tempo e dello spazio, per chetare la propria impazienza. Sarebbe partita da Napoli per Roma alle due e cinquantacinque, col treno più celere, tutta sola nel suo compartimento; sarebbe giunta a Roma alle otte e trentacinque della sera; alla stazione avrebbe ritrovato Ferrante e dopo un’ora e mezzo, in cui non sarebbero neppure entrati in Roma, sarebbero ripartiti, via Firenze e Bologna, per Venezia, insieme. Insieme! Pensando, ripensando, pronunciando sottovoce questa parola, ella vedeva scomparire l’ora, il tempo, lo spazio tutto, una nebbia le scendeva sugli occhi, una lieve vertigine le confondeva ogni moto. Insieme! Fu macchinalmente che pagò il cocchiere, scendendo alla partenza , nella stazione, stringendo fra le mani il sacchetto dove erano i suoi valori più preziosi. La grande galleria coperta dove si prendono i biglietti era quasi vuota. Ella non vi badò.
– Di prima, per Roma – disse, affannando un po’ al bigliettinaio.
– Ecco – fece quello – ma si affretti, perchè il treno parte.
Improvvisamente, presa da una orribile paura, ella si mise a correre, vedendo appena la sua strada, urtando le persone, lasciando appena il tempo alla guardia di tagliare il biglietto, arrivando sul terrapieno, appena a tempo per vedere il treno delle due e cinquantacinque allontanarsi lentamente. Ella tese le braccia e gridò, come se avesse potuto fermarlo. Un facchino sorrise; mentre gli impiegati della stazione, raccolti in gruppo, la guardavano con curiosità. Alla paura ella sentì subentrare una grande angoscia e una grande vergogna: rientrò nella sala di aspetto, deserta, si andò a buttare in un cantuccio, stringendo le labbra per non singhiozzare dietro il velo, stringendo nelle mani nervose, convulsamente, il manico di cuoio della borsetta. Perdere il treno, che miseria, che disgrazia ridicola, che tragedia buffa! Le pareva un’avventura così sciocca, così volgare che non sembrava possibile fosse capitata proprio a lei, nel momento supremo in cui si decideva la crisi del suo amore; era fremente di sdegno e di onta. Tanta forza di volontà, tanto impeto vincitore, tanto magnetismo trionfante di amore, tanta elettricità condensata… e farsi buttare a terra da un orologio che non va, o da un cocchiere che non ha saputo sferzare il suo cavallo. Avrebbe pianto di collera. Vediamo, quale era la piccola, meschina causa, la causa stupida per cui tutto l’edifizio era crollato? E cercava, invano, di ricordarsi: se era stata la propria lentezza nell’annodarsi il velo in casa sua, a Napoli, nel suo appartamento solitario; o l’esser tornata indietro, un momento, per aver dimenticato un taccuino da cui non si separava mai; o il non aver trovato immediatamente la carrozza da nolo; o perchè il cocchiere avea prescelto la stretta, difficoltosa e ingombra via di Forcella alla via della Marina, per andare alla stazione. Chi lo sa! Si trattava di cinque minuti, di soli cinque minuti, cinque piccolissimi, cortissimi, brevissimi minuti, che si perdono così naturalmente, così facilmente un po’ qui, un po’ là, senza saper come: e la loro perdita, poi, equivale alla rovina di tutto un sogno!
Fu solamente dopo un’ora di riflessioni amarissime, che ella sentì un soffio di rassegnazione penetrarle nel cuore: ma pur essendosi calmata, un’amaritudine gliene rimase. Si levò, risolutamente: andò a leggere l’orario, sulla parete stuccata di bianco. Avrebbe potuto partire soltanto la sera, alle dieci e quarantacinque. Circa sette ore di attesa! Pure, non ebbe il coraggio di rientrare in città, a Napoli; le sarebbe parsa una rinunzia completa. Avrebbe aspettato nella stazione. Non l’avrebbero mandata via, da quella sala d’aspetto? Non aveva mai viaggiato sola: non sapeva niente. Il guardiano le si accostò, guardandola curiosamente. Ella gli donò subito cinque lire: si sentì meno timorosa. Cercava di ricostruire il suo piano. Bisognava, innanzi tutto, telegrafare a Ferrante – e tal pensiero la faceva arrossire, pensava che avrebbe egli detto, trovandola così sciocca, così distratta da perdere il treno. Che dirà, che dirà? – si andava domandando, mentre girava intorno alla stazione, senza ritrovare l’ufficio telegrafico. Alla fine lo trovò. E allora non seppe dove indirizzare il telegramma; non seppe che cosa dire, si sentiva così irritata e umiliata, con sè stessa, col caso, che lacerò i fogli, senza riescire. Alla fine, mettendo l’indirizzo della stazione di Roma gli telegrafò, così confusamente, che le riesciva impossibile partire prima delle dieci e quarantacinque, senza aggiungere le ragioni di questo impossibile e soggiunse, umilmente: perdonami . Lo soggiunse, poichè non potea resistere all’idea del dolore di lui, Ferrante, non vedendola giungere alla stazione di Roma, trovando un telegramma invece della sua persona. Oh quelle sette ore di attesa! La pallida signora, vestita di un grande mantello bruno, tutta chiusa in un grande velo di garza bruna, snella e flessuosa nella persona, dall’andatura un po’ lenta, un po’ stanca, fu vista da per tutto, ripetutamente, nella stazione, per quel pomeriggio e per quella sera. Innanzi alle lunghe vetrine del libraio e nella sala gelida dei bagagli, camminando, fermandosi, sfogliando distrattamente un libro, aprendo un giornale illustrato; di nuovo alla sala del telegrafo, donde telegrafò a Sorrento, a due o tre persone che non la interessavano punto; verso le sette nella sala del buffet , dove prese un brodo e una tazza di caffè, malgrado che non avesse fame, seguendo con l’occhio distratto i multicolori avvisi della macchina Singer , della Coca Buton e della ferrovia lombarda ai Tre laghi ; fu vista finanche fuori stazione, passeggiare in giù e in su, facendo voltare tutti quelli che la incontravano, mentre essa guardava, certo senza vederli, il malinconico giardinetto della piazza, e le carrozze da nolo disposte intorno come i raggi di un cerchio, e le insegne dondolanti degli equivoci alberghi dal fanale verde o rosso; e da capo, come se ella non potesse stare ferma, fu incontrata al telegrafo, alla posta, nei terreni incolti della Piccola Velocità, presso il venditore di libri e di giornali, su e giù, su e giù per tutte le gallerie. Questo irrequieto fantasma muliebre vide empirsi e vuotarsi le sale di aspetto dei viaggiatori che partivano successivamente per le linee di Salerno, di Castellammare, di Foggia, di Aquila: vide fermarsi e andarsene i treni carichi di uomini, di donne, di borghesi e di contadini, che se ne andavano ai loro affari, al loro lavoro, alle loro cure. E nella ultima ora di attesa la invase una stanchezza profonda; rincantucciata in un angolo della sala di aspetto, silenziosa, immobile, col sacchetto sulle ginocchia, ella guardava le ondeggianti fiammelle del gas che il vento della sera agitava, e fu il guardiano della sala che l’avvertì della partenza – tanto in lei si era fatta la convinzione che era inutile più partire, che Ferrante non l’amava più, che tutto era finito. Tutta la notte del viaggio, lunga, lenta, con le sue numerose, monotone fermate, ella la passò in una veglia dolorosa alternata da qualche torpore doloroso, tutta sola nel suo compartimento, tremando di freddo malgrado le coperte e le pelliccie. L’alba si levò sulla severa campagna romana; donna Grazia dormiva, ora, pallida pallida, e solo i tre lunghi, striduli fischi del treno che entrava in Roma la riscossero. Le parve di uscire da un sogno triste: il sole illuminava le prime case di Roma, e la nebbia romana, e il fumo del treno, una felicità di calore e di luce l’avvolse, scendendo dal vagone, poggiando la sua mano sottile guantata sempre di nero in quella tremante di Ferrante. Si guardarono, così, lungamente, fra la folla, tenendosi per mano, camminando quasi portati.
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