Matilde Serao - Le amanti

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Così identica era la loro passione nel carattere, nella profondità, nella misura che il grande sogno da realizzare nacque nelle loro fantasie esaltate, contemporaneamente, germogliando nello stesso pomeriggio autunnale, nella stessa ora di disperazione, mentre erano lontani lontani, per molte miglia. Ambedue furono colpiti dal medesimo, irresistibile desiderio, contro cui nulla più poteva difenderli; ambedue arsero di tale desiderio come se fosse il più alto, l’estremo delle loro anime. L’immenso avvenire innanzi, alle loro esistenze ancora giovani, li sgomentava con la sua solitudine arida, mentre essi portavano in cuore di che riempirlo per sempre, di una strabocchevole felicità. Al punto in cui la grande fiamma che li ardeva era giunta in entrambi, era loro insopportabile vivere ancora, divisi, lontani, estranei: lo stesso cupo dolore li abbatteva. La paura del mondo, delle sue ciarle, delle sue calunnie veniva man mano scomparendo innanzi a questo bisogno di amore, di felicità che è in fondo a tutti i temperamenti umani, più freddi e più silenziosi, e che nell’ora della passione parla di una voce che nulla fa tacere. Per chi si sacrificavano? In nome di quale principio, di quale idea, di quale persona? Su quale altare sconosciuto deporre l’olocausto della loro passione?

– Io non posso più soffrire, la mia vita finisce – scriveva Grazia.

– Io non posso più soffrire, il mio coraggio è esausto – scriveva Ferrante.

In tale ardente impazienza, la loro sensibilità sentimentale raffinata dai sogni, dalle insonnie, dalle lettere incoerenti, si era fatta così acuta, così squisita, così fremente alla minima impressione, che quanto li circondava era complice del loro abbandono. Quando donna Grazia passeggiava sotto gli ombrosi viali della sua villa di Sorrento e fra gli aranci odorosi le arrivava il canto sottile di qualche voce innamorata, un improvviso fiotto di lacrime la inteneriva: e coloro che l’accompagnavano, si meravigliavano. Quando ella vedeva, nella sera, dalla sua terrazza, levarsi la luna sul golfo napoletano e tutte le case intorno soffondersi di bianca luce molle, una collera le saliva alla gola, di non essere via, di non essere con lui, in quell’ora di dolcezza, una collera contro il tempo che fuggiva, contro gli ostacoli che si frapponevano al suo amore e contro sè stessa che non sapeva vincere gli ostacoli. E a Roma, l’autunno è apportatore di novi, profondi turbamenti alle anime già turbate: quando Ferrante portava il suo vagabondaggio a Villa Borghese, dove ancora i viali pare che conservino la appassionata fantasima di Beatrice Cenci, ogni ombra femminile, snella, dal volto pallido e bruno dietro la veletta, lo facea trasalire; quando egli portava il suo vagabondaggio serotino a uno dei teatri, bastava che dietro alla nuca bionda di una donna, in un palchetto, si profilasse il volto di un uomo innamorato perchè egli si sentisse, a un tratto, immerso in una disperazione inguaribile. Allora, lontani, divisi, si tendevano le braccia come creature anelanti, che sanno un posto solo dove appoggiare il capo stanco: ed è questo il petto della persona che adorano, assente, lontana.

E allora, confusamente, nella crisi fatale di questa passione, si venne delineando un piano di amore, imperfetto, vago, ma che conduceva a un sol desiderio: quello di rivedersi, di stare insieme, lungamente, per sempre. Ognuno di loro, invece di perdere la propria forza in vani conati di dolore, avrebbe cercato di adoperarla a vincere tutti gli ostacoli morali e materiali per potersi riunire, fra quindici, fra otto giorni, in un paese solitario, tranquillo, in un ambiente di poesia e d’amore, dove potessero passare sconosciuti o indifferenti alla folla, o ravvolti in una comune indulgenza. Chi di loro due disse la parola: Venezia? Chissà! Fu così, naturalmente, che i loro cuori si fermarono su quel mite orizzonte di arte e di quiete, su quell’ambiente di case mute e sommerse nel languore che la morte precede, su quella città dove l’amore pare abbia la sua naturale atmosfera di pensiero, di lirica umana. Venezia, Venezia! Fu il nome amabile, seducente, che videro brillare ogni giorno, ogni ora; innanzi alla loro immaginazione; parola magica che fece scomparire tutte le altre; sillabe ravvolgenti e incantatrici da cui le loro anime prese, legate, non si potettero svincolare mai più. E man mano le loro lettere andarono perdendo tutto quel carattere d’indefinito, tutta quella vaghezza di contorni, quel continuo agitarsi errabondo dello spirito, quella incoerenza di anime deliranti: la passione addossata al muro della realtà, era entrata in un periodo positivo, pratico, preciso. Ogni giorno, sotto la volontà inflessibile, sotto la doppia inflessibile volontà, il loro piano acquistava linea, colore, cifra; il suo aspetto di fatto si veniva così minutamente facendo reale, che, già quasi quasi, per Grazia e per Ferrante, parea di vivere in quella realtà. Accanto a questi particolari definiti, matematici, dove la loro insofferenza si appagava, come per il fatto compiuto, ogni tanto, ma sempre più scarsamente, si veniva allogando qualche scoppio improvviso di frase amorosa: oppure una parola soltanto: Venezia. Anche l’aspetto degli amanti era mutato. Si eran fatti, nell’esteriore, freddi, risoluti, distratti in un pensiero o in un’azione, sempre occupati in qualche cosa, schivando, con la freddezza, la folla degli estranei e anche quella degli amici. Parlavan poco, brevemente. Non più le belle passeggiate della penisola sorrentina vedevano comparire il bruno volto pensoso di donna Grazia: ma in una stanza accanto alla sua erano aperti tutti i bauli, tutte le valigie della casa e la cameriera, che le voleva bene, ignorava ancora la destinazione che prendeva la sua signora. Ella vedeva che ogni giorno donna Grazia veniva chiudendo, in quei bauli e quelle valigie, tutto quanto aveva di prezioso come valore e come ricordo: ella vedeva che donna Grazia si aggirava per la casa, in vestaglia di lana bianca stretta alla cintura da un mistico cordone di seta nera, guardandosi intorno come trasognata, considerando le pareti vuote e i cassetti aperti, come se volesse portare via ancora qualche cosa.

– La signora parte per un lungo viaggio? – chiese timidamente, un giorno, la fanciulla devota.

– Lungo, lungo… – mormorò vagamente, donna Grazia.

– E io debbo venire?

– No… Meglio che non veniate – soggiunse donna Grazia.

– Tutta sola, un lungo viaggio? – osò chiedere ancora la ragazza.

Donna Grazia chinò il capo e non rispose: un velo di tristezza le passò sulla faccia. Tacquero.

E Ferrante, come il giorno della partenza si approssimava, non andava più nei soliti ritrovi di Roma autunnale: male o bene, ma con una febbre di uomo preoccupato, aveva cercato di risolvere alcuni affari stringenti, assorbito, distratto, accettando qualunque peggiore risoluzione, purchè fosse immediata. Quando i suoi intimi lo vedevano ricomparire, per un momento, gli domandavano, sorpresi:

– Ma che fai, dunque?

– Parto – rispondeva lui, pensando ad altro.

– Dove vai?

Egli faceva un cenno vago, come di paese molto lontano. Per discrezione, gli intimi non chiedevano altro: sapevano quale tragedia morale avesse sconquassata la sua famiglia e molti supposero qualche improvvisa, bizzarra decisione. Anzi, la voce ne corse, avvolta in veli misteriosi. Una sera, un amico più affettuoso, più insistente, andò a casa di lui: e lo trovò solo, fumando, con le finestre aperte, ma col caminetto acceso dove buttava delle carte, dopo averle lette. Sul tavolino vi erano altri pacchi di lettere, un grosso portafoglio di pelle, tutto sdrucito, due o tre libri dalla legatura usata e un paio di minute pistole nella loro scatola che pareva quella di un gioiello.

– Che fai, ti vuoi ammazzare? – domandò ridendo l’amico.

– Forse – rispose Ferrante, ridendo un poco, ma poco. Nè dissero altro, mentre nel caminetto le lettere avvampavano allegramente.

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