Emilio Salgari - Il Bramino dell'Assam

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«Oh!… Come mi ricordo quella tragica scena» disse Surama. «Quel giorno perdei il padre, la madre e due fratelli». «E poi?» chiese Yanez.

«Sindhia, il giovane fratello del rajah, era stato fatto segno a tre colpi di carabina andati tutti a vuoto, perché non aveva cessato di spiccare dei veri salti di tigre, rendendo quasi impossibile la mira, specialmente ad un uomo ormai completamente ubriaco. In preda ad un folle terrore aveva gridato più volte al fratello: “Fammi grazia della vita, ed io abbandonerò per sempre l’Assam. Sono figlio di tuo padre: tu non hai il diritto di uccidermi”. Il rajah continuava a sghignazzare ed a minacciarlo con un’altra carabina, ma poi, preso forse da un tardivo pentimento, gridò al disgraziato che continuava i suoi salti disperati:

« “Se è vero che tu abbandonerai per sempre il mio stato, io ti accorderò la vita, però ad una condizione”. «“Sono pronto ad accettare tutto quello che vorrai” rispose subito Sindhia.

«“Io getterò in aria una rupia e se la bucherai con un colpo di carabina ti lascerò partire per il Bengala senza farti alcun male”. « “Accetto”.

«“Ti avverto però”, urlò il rajah, “che se mancherai la moneta subirai la medesima sorte degli altri”. « “Gettala!”, gridò Sindhia.

«Gli fu calata una carabina, poi il rajah fece volare in aria il pezzo d’argento. Si udì subito uno sparo, e non fu bucata la moneta, bensì il petto del tiranno. Il giovane principe aveva voltata rapidamente l’arma contro il fratello, ed essendo un bravo tiratore, lo aveva fulminato con una palla al cuore. Subito i ministri e gli ufficiali si affrettarono a scendere nel cortile bagnato di tanto sangue, e si prosternarono dinanzi al nuovo principe giurandogli fedeltà. Vi ricordate, signora?»

«Sì, come ricordo che quel novello mostro invece di lasciarmi tornare sulle mie montagne, fra i miei fedeli kotteri, mi fece subito prendere per vendermi poi, segretamente, ad una banda di thup che percorrevano l’Assam», disse la rhani, «e fra i quali mi troverei forse ancora, senza di te, mio signore».

«Tutto è finito bene» disse Yanez. «Ti ho rapita agli strangolatori, ti ho portata qui, ho impegnato risolutamente la lotta con Sindhia, che già il popolo cominciava ad odiare per le sue crudeltà, e coll’aiuto delle Tigri di Mòmpracem e dei tuoi montanari ti ho dato metà della corona perché spero che un pezzo la lascerai brillare anche sulla mia fronte».

«Tutta, mio signore!…» gridò Surama, posando le sue mani sulle spalle vigorose del portoghese.

«Di affari di stato io non mi sono mai occupato, mia piccola reginetta. Preferisco andare a cacciare le tigri e gli elefanti. Yanez gran principe supremo? Sono già maharajah, e ne ho anche di troppo di questo titolo che mi costringe, ogni volta che esco di qui, a salutare cinquantamila o centomila persone. La corona intera la raccoglierà il nostro piccino, se il diavolo non ci metterà la coda, poiché, come ti ho detto, le ruote del nostro carro pare che manchino di grasso. Bah!… La vedremo!… Tu hai i tuoi kotteri sempre fedelissimi, io avrò ancora una volta le Tigri di Mòmpracem, sempre pronte ad accorrere alla mia prima chiamata col loro invincibile Sandokan, e se è vero che Sindhia sia fuggito e che ritenti di riconquistare il potere, avrà da lavorare di denti e di unghie come una bestia feroce». Si tolse da un taschino un orologio e guardò l’ora.

«Per Giove!…» esclamò, «Già mezzanotte!… Come passa il tempo cospirando, poiché ora noi siamo un po’ i cospiratori. Kammamuri, conduci il baniano in una stanza: gli darai un dubgah fiammante, ma gli metterai due sentinelle alla porta». «Altezza!…» gridò il baniano. «Dubitereste di me?»

«Niente affatto: prendo solamente delle precauzioni. Capirai che qui si avvelena troppo». «Avete ragione, Altezza». «Gli farai poi dare dal tesoriere della rhani cinquanta rupie». «Sono troppe, Altezza, ve l’ho già detto». «Le metterai da parte per quando non potrai più cacciare topi». «A domani sera?» chiese Tremal-Naik.

«Sì, dopo il tramonto del sole. Porta lanterne e non dimenticare i due molossi del Tibet». «Guarda quello che fai, mio signore» disse Surama.

«Spero di passare una bella nottata» rispose Yanez, sorridendo. «Una caccia all’uomo sottoterra, fra acque putride e legioni di topi!… Deve essere assai interessante, E poi questi avvelenatori bisogna assolutamente scoprirli, per Giove!… Quando ne avremo decapitati quindici o venti, vedrai che ci lasceranno tranquilli». Si era alzato.

Tremal-Naik e Kammamuri uscirono subito conducendo con loro il vecchio baniano, quantunque fossero più che certi della sua fedeltà. Yanez vuotò un’ultima tazza di birra e si ritirò, colla rhani, nel suo appartamento privato, le cui porte erano tutte sprangate e vigilate da rajaputi armati fino ai denti.

CAPITOLO QUARTO: LA CACCIA AGLI AVVELENATORI

La sera dopo, appena i gong disposti nei vari quartieri della capitale, avevano suonato il coprifuoco, un drappello formato di dieci uomini, usciva misteriosamente dal palazzo imperiale.

Era preceduto da due molossi tibetani, superbi animali, robustissimi, di corpo fortissimo, colle labbra penzolanti, che in causa di due ripiegature danno loro un aspetto veramente terribile. Sono grossi quanto un vitello, e posseggono una tale forza muscolare da lottare vantaggiosamente contro gli orsi e atterrarli. Guai se mordono!… Spezzano sempre, o producono spaventevoli ferite. Il drappello era formato da Yanez, da Tremal-Naik, da Kammamuri, dal baniano con sei sikkari che conoscevano i due molossi e che potevano lanciarli al momento opportuno.

Tutti erano armati di carabine e di pistoloni a doppia canna, di buona portata, e portavano, sotto un mezzo mantello di causciù, delle piccole lampade cinesi da accendersi più tardi.

Gli abitanti si erano già ritirati, sgombrando le vie, niente preoccupati, a quanto pareva, del nuovo delitto che aveva colpito il governo imperiale. Quella calma, o meglio, quella indifferenza, aveva colpito un po’ Yanez, a cui nulla sfuggiva.

«Si direbbe che anche il popolo congiura» disse a Tremal-Naik che gli camminava a fianco.

«Tu corri troppo, amico. Sai che il popolo non ha l’abitudine di occuparsi di ciò che succede nei palazzi della rhani. A loro basta di vivere tranquilli».

«Hum!… Hum!…» fece Yanez, stringendo un po’ i denti. «Questa calma non mi rassicura affatto». «Diventi pessimista?»

«Che cosa vuoi che ti dica? Finché non sarò sicuro che Sindhia si trova ancora a Calcutta, nell’ospedale dei pazzi dove l’abbiamo fatto internare, non sarò mai tranquillo». «Di questo affare si occuperà Kammamuri. Sai quanto vale e quanto è furbo».

«È un uomo prezioso, infatti» rispose Yanez. «Facciamo prima questa battuta poi vedremo che cosa ci converrà di fare». «Speri tu di scovare quel maledetto bramino?»

«Sì» rispose il portoghese. «Il cuore mi dice che quell’assassino che maneggia le bave velenose dei bis cobra, cadrà presto nelle nostre mani. Il baniano l’ha veduto, e noi lo sorprenderemo dentro le cloache». «Cerchiamo di prenderlo vivo». «Certo» disse Yanez. «Lo faremo poi parlare».

«S’incaricherà Kammamuri di snodargli la lingua» rispose Tremal-Naik. «È famoso, il maharatto». «Lo so» disse Yanez, sorridendo. «Faceva parlare perfino i thugs». «E come cantavano!…» «Ma!… Dove siamo noi, baniano?» chiese il portoghese.

«A poca distanza dal fognone. Vedete quella vecchia moschea priva della sua cupola? Sotto di essa passa, o meglio comincia il gran fognone». «Che i misteriosi individui si siano già ritirati?»

«A quest’ora sì, Altezza. Pare che non amino passeggiare per la città dopo il tramonto del sole». «Dove si cacceranno di giorno?» «Chi lo sa? Non ho mai osato seguirli dopo quei due colpi di pistola». «E, quantunque tu sia molto vecchio ci tieni ancora alla vita, è vero?» «Penso, Altezza, che c’è sempre tempo a morire».

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