Emilio Salgari - Il Bramino dell'Assam

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«Diverrò troppo ricco, Altezza» disse il baniano. «Non ne spendo che due in tanti giorni».

«Le metterai da parte. Mangia, bevi e lasciaci tranquilli e fingi di esser sordo». «Se volete, Altezza, mi taglio gli orecchi».

«Non esigo tanto. Cerca solamente di dimenticare quello che avrai udito qui dentro».

Il baniano promise colle due mani alzate e le dita aperte, poi riprese il pasto troppo interrotto, lavorando ferocemente di denti come i topi che cacciava.

Yanez fece volar via una sigaretta, bevette un bicchiere di birra, poi guardando la rhani le chiese:

«Che cosa pensi tu di tutto ciò, mia piccola moglie? Sei tu alla testa del carro dello stato, anzi sei il timone, mentre io non sono che un freno».

«Io dico che la cosa mi pare grave» rispose Surama. «Noi dobbiamo far scovare ed arrestare quei misteriosi individui».

«Ho già fatto il mio piano» disse Yanez, accarezzandosi la bella barba. «Domani sera, appena calato il sole, io, Tremal-Naik, Kammamuri ed i miei sei fedelissimi sikkari, andremo ad esplorare quelle cloache, preceduti però dal baniano e dai due nostri molossi del Tibet». «E perché vuoi andarci tu? Non ho i miei rajaputi?»

«Làsciali riposare. Già di quei mercenari non ho mai avuto fiducia, quantunque siano bravi soldati. Si vendono troppo facilmente».

«Vuoi che faccia venire due o trecento montanari di Sadhja? Tu sai quanto mi sono devoti e quanto sono valorosi».

«Senza di loro non avremmo mai potuto detronizzare quel pazzo di Sindhia. Per ora, lascia però anche loro tranquilli; se le cose si aggraveranno, faremo accorrere Khampur con due o tre migliaia di uomini e la Tigre della Malesia coi suoi terribili pirati. Daremo dei grossi fastidi all’ex sovrano, se vorrà riconquistare la corona».

«Tu hai sempre l’idea fissa che Sindhia sia fuggito da Calcutta, è vero, mio signore?» «Sì, mia reginetta». «Che abbia ancora dei partigiani qui?» chiese Tremal-Naik. «Può darsi». «Ma la tua polizia che cosa fa?»

«Mangia, beve, fuma, mastica betel, e dorme più che può, affermando sempre che lo stato riposa su basi di granito e che nessuno lo minaccia». «Io manderei la tua polizia a dare la caccia a quegli uomini misteriosi».

«Quei bravi agenti farebbero venti o cinquanta metri entro le cloache, poi tornerebbero per dirci che il baniano ha sognato. No, andremo noi, senza fracasso, senza grossa scorta, e vedrai che noi otterremo qualche buon risultato».

«E ti esponi ad un grave pericolo forse, mio signore» disse Surama. «Non hai udito che hanno sparato due colpi di pistola contro il baniano?»

«Che cosa valgono le pistole contro di noi? Siamo gente abituata alla grossa musica del cannone ed ai colpi di mitraglia delle spingarde. È vero, Tremal-Naik?»

«Sì, amico» rispose l’indiano. «Non ci vogliono giuocattoli contro i nostri corpi».

«Anche una palla di pistola può uccidere se sparata al momento opportuno» disse Surama, con angoscia. «Pensaci, mio signore.»

«Io penso che ho combattuto per più di vent’anni sotto la rossa bandiera della Tigre della Malesia, senza ricevere mai una scalfittura. E non facevano risparmio di mitraglia né i prahos di James Brooke, né gli incrociatori inglesi. Si vede che qualche buon genio mi protegge sempre quando mi scaglio nella battaglia». «Eppure ho paura, mio signore».

«Di quei miserabili? Avremo subito ragione di loro, te lo assicuro, specialmente se appoggiati dai due molossi». «Lascia che venga allora con te». Yanez corrugò la fronte.

«La rhani dell’Assam deve dormire nel suo palazzo» disse poi. «Se durante la mia assenza succedesse qualche cosa di grave ancora, chi comanderebbe qui?» «Ci sono i ministri».

«Non sono gente di guerra, e badano più alle laute paghe che tu hai assegnato loro, che a tutto il resto». «Forse hai ragione, mio signore».

«E poi vi è Soarez, nostro figlio, qui, che può da un momento all’altro correre qualche grave pericolo». «Vuoi spaventarmi, mio signore?»

«Io credo che nessuno avrà tanto coraggio da entrare nei nostri appartamenti privati. Sono ben guardati, mi pare». «Fa’ come vuoi».

Yanez vuotò un altro bicchiere di birra, e volgendosi verso il cacciatore di topi il quale aveva finita la cena, gli chiese: «Hai conosciuto tu il rajah Sindhia?»

«Sì, Altezza. Regnava prima di voi e della rhani, mettendo a dura prova la pazienza del suo popolo colle sue pazzie».

«Credi tu che quel malvagio che ha assassinata tanta gente, possa avere ancora dei partigiani?»

«È stato troppo cattivo per averne. Valeva suo fratello, il distruttore di tutti i parenti durante i banchetti, tuttavia chi lo sa? Le rupie in India fanno sovente dei veri miracoli. Ho udito narrare che avesse da parte una fortuna, messa in salvo prima della sua detronizzazione».

«Anche noi» disse Surama. «Però non l’abbiamo mai creduto, ed io pagavo al principe spodestato mille rupie al mese».

«Signora» disse il cacciatore di topi. «Io ho assistito dall’alto di una terrazza alla distruzione di tutti i vostri parenti, e non so per quale miracolo voi siate sfuggita ai colpi di carabina che quell’alcolizzato sparava senza contare». «Tu!…» esclamò Surama con viva emozione. «Sì, signora, perché allora ero un valletto del rajah».

«Narraci quella scena spaventosa» disse Yanez. «La conosco, ma preferisco udirla dalle tue labbra».

«Il rajah si era fitto in testa che tutti i suoi parenti si fossero collegati per strappargli il potere. L’aveva specialmente con suo fratello, il Sindhia che non è diventato migliore, e con un suo zio che era capo di una tribù di kotteri, ossia di guerrieri, uomo valoroso fra i valorosi, che più volte aveva difese le frontiere dello stato contro le scorrerie dei birmani, infliggendo a quei popoli semiselvaggi, tremende sconfitte. Perciò godeva una grande popolarità in tutto l’Assam, e ciò dava ombra al rajah». «Si chiamava Mahur, è vero?» disse la reginetta con un sordo singhiozzo. «Sì» rispose il cacciatore di topi. «Era mio padre». «L’ho saputo». «Continua» disse Yanez.

«Era piombata sull’Assam una grande carestia dovuta ad una estrema siccità. Per mesi e mesi non una goccia era caduta, ed il sole tutto bruciava nelle campagne. I bramini ed i gurus (sacerdoti di Siva), consigliarono il rajah di organizzare delle grandiose feste religiose per placare l’ira degli dèi. Il pazzo non aspettava che una occasione per distruggere tutti i suoi parenti. Feste magnifiche furono date che il popolo deve ricordare ancora non meno di me, poi nel gran cortile di questo palazzo fu preparato un gran banchetto al quale erano stati invitati tutti i parenti del rajah, che vivevano disseminati nelle varie province dello stato. Il primo a giungere fu l’eroe delle frontiere birmane, il quale giunse colla propria moglie, due figli maschi ed una bambina». «Ero io» disse Surama, nelle cui pupille passò un lampo umido.

«Tutti i parenti erano stati ricevuti con grandi onori e con gran cordialità ed alloggiati qui. Ve lo ricordate, signora?» «Sì» rispose Surama.

«Il banchetto offerto a tutti i parenti stava per finire, quando il rajah, che aveva bevuto una enorme quantità di liquori, scomparve coi suoi ministri per apparire poco dopo su un terrazzino, armato di carabina. Echeggiò un colpo ed il capo dei kotteri fu il primo a cadere colla testa attraversata da una palla. Lo stupore, causato dall’assassinio, che per tutti i banchettanti riusciva inesplicabile, non era ancora cessato, quando un secondo colpo rintronava, ed un altro convitato stramazzava addosso alla tavola, bruttando la tovaglia di sangue e di materia cerebrale. Il rajah pareva un demonio. Aveva gli occhi schizzanti dalle orbite e fiammeggianti come quelli d’una pantera, i lineamenti spaventosamente sconvolti, e sghignazzava, l’assassino. Intorno, i suoi ministri erano pronti a porgergli altre carabine ed a versargli altri liquori per maggiormente eccitarlo. I disgraziati banchettanti, uomini, donne e fanciulli, si erano messi a correre pel cortile, cercando invano una uscita, mentre il rajah, urlando come una belva od un pazzo, continuava a sparare facendo nuove vittime. La strage durò mezz’ora: due soli erano miracolosamente scampati all’eccidio, il fratello del rajah e la vostra signora. Trentasette erano i parenti del principe, e ben trentacinque caddero per non più rialzarsi, e vi erano donne e bambini».

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