Emilio Salgari - Jolanda, la figlia del Corsaro Nero
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Udendo quella voce, l’uomo che era caduto fra le braccia di Carmaux aveva alzato il capo, lasciandosi sfuggire subito un grido d’angoscia.
«Sono morto!…»
Carmaux era scoppiato in una risata fragorosa.
«Ah!… Il piantatore!… Che bell’incontro!… Come state señor Raffaele?…»
Il disgraziato piantatore, sentendosi allentare la stretta, aveva fatto due passi indietro, ripetendo con voce strozzata:
«Sono morto!… Sono morto!…»
«È dunque una vera mania che avete di credervi sempre morto?» chiese Carmaux che non cessava di ridere. «Eppure mi sembra che scoppiate per troppa salute».
«Toh!» esclamò in quel momento Wan Stiller, che si era alzato. «Chi vedo?… Il piantatore?… Buona presa, Carmaux!»
Don Raffaele, muto per il terrore, guardava or l’uno or l’altro, tirandosi i capelli.
«Ohimè!…» sospirò il piantatore. «Mi impiccherete per vendicare i vostri camerati, che il governatore ha fatto appendere alle forche della Plaza Mayor».
«Non siete stato voi».
«Lo so, però il vostro comandante potrebbe crederlo».
«Bah!… Bah!…» fece Carmaux, che si divertiva immensamente e che faceva sforzi sovrumani per conservarsi serio. «Coraggio, signor mio; ecco là Wan Stiller che porta in trionfo quattro bottiglie, che devono essere state turate ai tempi di papà Noè. Perbacco!… Che fiuto che ha quell’amburghese!… Ha scoperto la cantina di colpo!…»
Carmaux aveva preso per un braccio ben stretto il piantatore, onde non gli scappasse, quando a breve distanza rimbombarono alcuni colpi di archibugio e da una via laterale sbucarono a corsa sfrenata parecchi abitanti, che portavano sulle spalle dei grossi involti contenenti probabilmente le loro ultime ricchezze.
«Misericordia!…» esclamò il piantatore. «Ci uccidono!…»
«Ragione di più per rifugiarci nella taverna» disse Carmaux. «Non si sa mai!… Una palla può deviare e fare scoppiare anche la vostra pancia».
Lo spinse violentemente entro la taverna, dove l’amburghese stava decapitando, colla sua corta sciabola, le quattro bottiglie.
La sala era deserta, ma tutto era sotto sopra. La grande tavola dove avevano combattuto i galli giaceva colle gambe all’aria, i tavolini erano addossati alla rinfusa contro le pareti; gli sgabelli ingombravano il pavimento assieme a vasi e bottiglie infrante.
Pareva che il proprietario, prima di fuggire, avesse cercato di spezzare quanto non aveva potuto portare con sé.
«Purché sia rimasta salva la cantina, poco importa» disse Carmaux. «È così, amburghese?»
«Vero Alicante» rispose Wan Stiller, facendo schioccare la lingua da buon intenditore. «È proprio di quello che abbiamo bevuto la sera del combattimento dei gatti.
«Bada che gli altri non vengano a vuotarcele, perché non ho trovate che queste bottiglie. Quel mascalzone di taverniere ha fracassato tutto nella cantina. Imbecille!»
Riempì un bicchiere trovato per miracolo ancora intatto e lo offrì al piantatore, dicendogli:
«Elisir di lunga vita, signor spagnolo. È di quello, ve ne ricordate?»
Don Raffaele, che si sentiva tremare le gambe, lo vuotò d’un fiato borbottando un grazie.
«Un altro» disse Carmaux, mentre l’amburghese si metteva alle labbra una delle quattro bottiglie.
«Volete ubriacarmi una seconda volta per poi impiccarmi?» chiese don Raffaele.
«Ve l’ha detto qualcuno che il capitano Morgan ha decretato la vostra morte?» chiese Carmaux, con voce grave.
«Sono un moribondo, dunque?» urlò don Raffaele, diventando livido. «Vuole vendicare su di me la morte dei suoi sette marinai?»
Carmaux lo guardò per qualche istante in silenzio, aggrottando a più riprese la fronte, poi disse:
«Sta in voi salvarvi».
«Che cosa devo fare? Ditemelo! Io sono ricco, posso pagare un grosso riscatto al vostro capitano…»
«Quello lo pagherete a noi, mio caro signore» disse Carmaux, «essendo stati noi a farvi prigioniero; ma per ora non è questione di danaro, bensì di pelle».
«Spiegatevi meglio» disse don Raffaele, che cominciava a respirare più liberamente. «Non ho alcun desiderio di ballare un fandango all’estremità d’una corda».
«Allora rispondete e pesate bene le vostre parole» disse Carmaux, che tutto d’un tratto era diventato minaccioso. «Dove è stata nascosta la signora di Ventimiglia?»
«Come!» esclamò il piantatore, facendo un gesto di sorpresa. «Non l’avete ancora trovata?»
«No».
«Eppure io non l’ho veduta a fuggire col governatore».
«Ah! Ha preso il largo quel brav’uomo!» esclamò Wan Stiller con voce ironica.
«Assieme ai suoi ufficiali e su buoni cavalli» rispose don Raffaele. «A quest’ora deve essere ben lontano e sarete ben bravi se riuscirete a raggiungerlo».
«E non vi era con lui la figlia del Corsaro Nero?»
«No».
«Don Raffaele!» gridò Carmaux, picchiando sulla tavola un pugno così formidabile da far saltare le bottiglie. «Badate che giuocate la vostra vita».
«Lo so ed è per questo che io non cercherò d’ingannarvi».
«Allora si trova ancora qui?»
«Ne sono più che certo».
«O che sia stata uccisa?» chiese Carmaux impallidendo.
«Non credo, che il governatore abbia avuto il coraggio di lordarsi le mani del proprio sangue».
«Che cosa dite?» chiesero ad una voce i due filibustieri.
Il piantatore si morse le labbra come se si fosse pentito di essersi lasciate sfuggire quelle parole, poi alzando le spalle disse:
«Io non ho giurato di mantenere il segreto e poi la mia vita si trova nelle vostre mani ed io ho il diritto di difenderla come meglio posso».
Carmaux tracannò un sorso d’Alicante, poi incrociando le braccia e piantando gli occhi in viso al piantatore, disse:
«Don Raffaele, spiattellate. Di quale sangue parlavate?»
«Avrete la pazienza di ascoltarmi?»
Carmaux stava per rispondere, quando alcuni colpi di fucile rimbombarono sulla piazza e parecchie persone passarono correndo dinanzi alla taverna, gettandosi verso le vicine ortaglie.
Cinque o sei filibustieri, che avevano in mano gli archibugi ancora fumanti, vedendo l’insegna del Toro, si erano affacciati alla porta della taverna, urlando:
«Una cantina! Hurrà! Buchiamo le botti!»
Carmaux si slanciò verso di loro coll’archibugio in mano, gridando:
«Indietro, camerati!»
«Toh!» esclamò uno di quei corsari. «I due inseparabili!… Volete bere tutto voi?… Satanasso!… Lo spagnolo che ha fatto impiccare i nostri compagni!… Abbruciamolo vivo!…»
«È nostro prigioniero» gridò Carmaux.
«Fosse anche del diavolo, io non me ne andrò se prima non gli avrò bucato il ventre» disse un altro corsaro. «Largo, camerata! Quell’uomo appartiene alla giustizia dei Fratelli della Costa».
Il povero don Raffaele, che era diventato paonazzo dal terrore, si era rifugiato dietro la tavola, cercando di farsi più piccino che poteva.
«Levatevi dai piedi!» urlò Carmaux, puntando risolutamente l’archibugio verso i filibustieri che si spingevano l’un l’altro per entrare. «Quest’uomo è una preda dell’almirante».
Udendo quelle parole, i corsari si arrestarono titubanti, poi volsero le spalle allontanandosi di corsa, tanto era il terrore che esercitava Morgan anche su quell’accozzaglia di scorridori del mare, che pur non riconoscevano né leggi, né governo.
«Parlate, ora» disse Carmaux, tornando verso il piantatore. «Nessuno verrà più a disturbarci».
Don Raffaele bevette d’un fiato un bicchiere d’Alicante, per riprendere coraggio, poi disse:
«L’istoria che io sto per narrarvi è un segreto che solo pochissimi spagnoli conoscono e che voi ignorate. Vorrei però sapere, prima di cominciarla, quale causa dell’odio implacabile che regnava fra il Corsaro Nero, signor di Ventimiglia, ed il duca Wan Guld, un tempo governatore di questa città.
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