Emilio Salgari - Jolanda, la figlia del Corsaro Nero
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Non trovano altro che i cannoni e pochi fucili abbandonati dal nemico nella sua precipitosa ritirata. Il presidio, credendo di non poter arrestare i corsari e spaventato dal numero delle navi, si era ritirato precipitosamente in Maracaybo, accontentandosi di mettere una miccia accesa al magazzino delle polveri, perché con esse saltassero in aria anche i nemici.
Fortunatamente i corsari non erano ancora entrati nel forte quando lo scoppio avvenne.
Crollarono con immenso fracasso le casematte, le merlature e parte delle muraglie, aprendo qua e là delle enormi breccie, senza però danneggiare l’equipaggio della Folgore.
Udendo quel rombo spaventevole e vedendo innalzarsi quella colonna di fumo, i marinai delle altre navi si erano affrettati a prendere terra per accorrere in aiuto dei loro camerati che credevano di trovare malconci e anche alle prese cogli spagnoli, e furono invece accolti da altissime grida di vittoria.
Morgan, informato della ritirata del presidio, decise senz’altro d’investire la città, prima che i suoi abitanti potessero rifugiarsi nei boschi e mettere in salvo i loro tesori.
Lo scoppio del forte aveva già sparso il terrore fra quella disgraziata popolazione, che aveva già provati gli orrori del saccheggio, compiuto vent’anni prima dai filibustieri del Corsaro Nero, di Pietro l’Olonese e di Michele il Basco.
Invece di prepararsi alla difesa tutti gli abitanti si erano dati a fuga precipitosa nei boschi vicini, portando con sé quanto aveva di meglio, e anche fra i soldati della guarnigione regnava un panico, che la presenza del governatore e dei suoi ufficiali non bastava a dissipare.
Il nome di Morgan, l’espugnatore di Portobello, faceva titubare i più vecchi soldati, che pur avevano date tante prove di valore sui campi dell’Europa e che avevano conquistati e rovesciati imperi, come quelli degli Aztechi nel Messico e degli Incas nel Perù.
I filibustieri, lasciati pochi uomini a guardia della squadra e saliti sulle scialuppe, si accostarono velocemente alle banchine del porto. Morgan era alla loro testa con Pierre le Picard, Carmaux e Wan Stiller.
Vedendoli sbarcare, gli spagnoli, che erano pure in buon numero e che avevano innalzate frettolosamente delle trincee, avevano aperto un violentissimo fuoco di moschetteria, mentre i due fortini che proteggevano la città dal lato di terra, facevano rombare i loro grossi cannoni. Era però ormai troppo tardi per arrestare quei filibustieri, che le possenti e numerose artiglierie del forte della Barra non avevano saputo trattenere né schiacciare.
I bucanieri, che si trovavano sempre in buon numero sulle navi corsare e che, in quell’epoca, erano i migliori bersaglieri del mondo, con scariche ben aggiustate, avevano ben presto costretto il presidio ad abbandonare le trincee ed a salvarsi con una fuga più che precipitosa.
Dieci minuti dopo, le bande di Morgan irrompevano nelle vie della disgraziata città, invadendo le case e uccidendo senza misericordia quanti tentavano di opporre resistenza.
Capitolo sesto. Don Raffaele
Mentre i filibustieri s’abbandonavano al saccheggio, Morgan con una cinquantina dei suoi marinai si era diretto verso il palazzo del governo, dove sperava di sorprendere ancora il governatore e dove supponeva di trovare qualche resistenza.
Non vi era invece più nessuno. Tutti erano fuggiti, lasciando il portone spalancato ed il ponte levatoio abbassato.
Solo sette forche, dalle quali pendevano i sette corsari che avevano accompagnato il piantatore, facevano triste mostra, proprio nel mezzo dell’ampia e deserta piazza.
Nello scorgerli, un urlo di rabbia era scoppiato fra il drappello di Morgan.
«Bruciamo il palazzo del governatore!… Vendetta, capitano, vendetta!… Trucidiamo tutti!…»
Pierre le Picard, che faceva parte del drappello, gridò:
«Portate qui due barili di polvere e facciamo saltare il palazzo!…»
Già degli uomini stavano per slanciarsi in varie direzioni, quando un comando breve ma energico di Morgan li arrestò.
«Sono io che comando qui!… Chi si muove è uomo morto!…»
Il filibustiere si era gettato fra la turba furibonda, colla spada nella destra e una pistola nella sinistra.
«Insensati!…» urlò. «Che cosa siamo venuti a far qui? E non pensate che forse in questo palazzo, in qualche antro segreto si trova la figlia di cavalier di Ventimiglia? Volete ucciderla per una stupida vendetta?»
A quelle parole l’ira furibonda dei filibustieri era improvvisamente sbollita. Chi poteva assicurare che il governatore, prima di fuggire, non avesse nascosta in qualche sotterraneo la fanciulla, per la cui salvezza avevano tentato quell’ardito colpo di mano?
«Invece di gridare come oche» disse l’almirante della flotta corsara, «cercate di fare quanti prigionieri potete. Qualcuno saprà dirci dove si trova la figlia del Corsaro Nero.
«Questo si chiama parlare d’oro» disse Carmaux che faceva parte del drappello. «Ehi, amburghese, dove sei?»
«Eccomi, compare» rispose Wan Stiller.
«In caccia, amico mio. Cerchiamo di prendere qualche pezzo grosso».
Mentre Morgan entrava con parecchi dei suoi ufficiali nel palazzo del governo, per frugarlo da cima a fondo, e gli altri si disperdevano in varie direzioni per procurarsi dei prigionieri, Carmaux e l’amburghese, che conoscevano sufficientemente la città essendovi stati già due volte col Corsaro Nero molti anni prima, presero un viottolo che serpeggiava fra le muraglie di alcuni giardini.
«Dove mi conduci?» chiese l’amburghese, dopo aver percorso un centinaio di passi, senza aver incontrato alcuno. «Non è da questa parte che fuggono gli abitanti».
«Voglio andare a fare una visita alla taverna El Toro» rispose Carmaux. «Scommetterei una piastra contro un doblone di Spagna che troveremo qualcuno da quelle parti».
«I nostri non devono ancora essere giunti fino là».
«Infatti non odo alcun colpo di fucile echeggiare verso la laguna».
«Allunga il passo, amburghese».
I filibustieri della squadra, che avevano appena allora cominciato il saccheggio, si trovavano ancora nei sobborghi, che si prolungavano dietro il forte della Barra e non erano giunti ancora nel cuore della città.
Da quella parte si udivano clamori spaventevoli, seguìti da qualche scarica di fucili e si vedevano alzarsi anche delle colonne di fumo. Nei giardini e nelle case adiacenti, regnava invece un silenzio assoluto. La popolazione doveva aver approfittato della breve resistenza opposta dalle truppe, per sgombrare precipitosamente, salvandosi nei boschi o sulle isole della laguna.
Carmaux e l’amburghese, di quando in quando scorgevano bensì qualche uomo o qualche donna attraversare velocemente i giardini, ma non si prendevano la briga di dare loro la caccia.
Correvano da dieci minuti, quando si trovarono su una piazzetta all’estremità della quale, dinanzi ad una porta, pendevano due enormi corna.
«La taverna» disse Carmaux.
«Sì, la riconosco dall’insegna» rispose l’amburghese.
«Pare che anche qui tutti abbiano sgombrato».
«Taci!…»
«Che cos’hai?»
«Qualcuno s’avvicina».
Presso la taverna s’apriva una via e da quella parte si udivano delle persone avanzarsi, correndo disperatamente.
«Attento amburghese» gridò Carmaux, slanciandosi da quella parte.
Aveva appena raggiunto l’angolo, quando un uomo gli cadde fra le braccia. Carmaux fu pronto a stringerselo al petto, gridandogli con voce minacciosa:
«Arrenditi!…»
Nel medesimo istante otto o dieci negri che correvano all’impazzata, carichi di pacchi voluminosi, urtarono l’amburghese così violentemente da mandarlo a gambe levate, prima ancora che avesse potuto alzare il moschetto.
«Tuoni d’Amburgo!…» aveva esclamato Wan Stiller. «Mi accoppano!…»
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