Renato Fucini - Napoli a occhio nudo - Lettere ad un amico

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Napoli a occhio nudo: Lettere ad un amico: краткое содержание, описание и аннотация

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Venite, correte, o pittori del passato, del presente e dell'avvenire; calate, calate a sfamarvi, o titani dell'arte, ai quali manca un soggetto; qui c'è pane per tutti i denti, perchè senza escire dalla città, anzi senza allontanarvi dal centro, troverete e motivi e soggetti da empir tele quante ne fabbrica l'Olanda. Anfore greche, pompejane ed etrusche; carriaggi andalusi; tipi di beduini e di ateniesi; costumi europei del Seicento come lettighe, portantine e rococò d'ogni genere; trasporti funebri spartani; cocottes parigine; cafoni e mandre della Sila e via e via e via. – Calate, calate, scegliete, scegliete e se avete occhi, mani e pennelli, arruotateli, strusciateli, consumateli fino alle barbe, perchè ora è tempo.

Fermiamoci un momento ad osservare i venditori ambulanti: ma chi può tener dietro a questa fantasmagoria? Il numero di tutti questi urloni che, dal levar del sole a tarda notte, girano continuamente colla loro merce sulla testa o guidando per la coda piccoli somarelli stracarichi d'ogni ben di Dio, è favoloso. E venditori d'ortaggio, e pescivendoli e ostricari, e maruzzari e acquafrescai, e venditori d'ananassi, e di castagne, e di carubbe; e limonai, e aranciai, e ciabattini ambulanti, e venditori di giornali, di numeri del lotto, di stampe, di libri, di chincaglierie, di mazze, di burattini… ma chi è buono a contarli? E tutti urlano e nessuno si ferma e nessuno si cheta mai, mai, mai. Ogni dieci passi un versetto della loro piagnucolosa cantilena e via! e sopra ogni trivio una brevissima fermata, dove, guardando in aria e arroncigliando le labbra, berciano e gesticolano, finchè non vedono calare il panierino della loro cliente del settimo piano. Allora solamente si chetano, ma non per stare zitti, veh! Dio ne guardi! ma per contrattare la vendita a venticinque o trenta metri di distanza.

È tale l'abuso che si fa di questo sistema, che assolutamente non mi avrebbe fatto maraviglia l'incontrare un chirurgo a tagliar gambe per la via o un sacerdote con l'altare ad armacollo dire la Messa correndo e il chierico e il popolo dietro per ascoltarla. O che non sarebbero intonate anche queste con tutto il resto? Io dico di sì.

Il lustrascarpe urla invitandoti e fa tonfi battendo la spazzola su la cassetta; il vetturino passa schioccando e se non ha persone sul legno, non cessa mai di sibilare e gridare a destra e a sinistra: – Scì, scì, scì, scì! a vulite, a vulite? – (la volete, la volete?) Facchini carichi come bestie; operai che portano o riportano lavoro, i quali gridano per farsi largo tra la folla; e se a tutto questo si aggiungano: campanacci che tintinnano al collo di capre e pecore in truppe numerose; e belati, e ragli, e nitriti, e muggiti, e organini che suonano correndo continuamente, e corni e cornette di omnibus e tramway, e sonagliere di carriaggi della campagna e strepiti di venditori di giornali coi loro incessanti: – o Pì, o Pun – (il Piccolo , il Pungolo ) e la romba continua di migliaja di veicoli; e tonfi e botte e schianti di magnani, falegnami, carrozzieri e centinaja di altri operai che lavorano su la via strillando e gesticolando come pinzati dalla tarantola, si capirà come le persone più tranquille siano costrette, se vogliono intendersi fra loro, ad urlare, e quelle accanto ad urlare più forte di loro, e quell'altre più che mai; e così tutta Napoli è costretta a strillare con un crescendo tale che qualche volta, arrivandomi alle orecchie intronate il suono di campane, le ho benedette e fissandomivi con l'attenzione, mi hanno servito di riposo e ne ho preso refrigerio e conforto.

… In un bollente vetro
Gittato mi sarei per rinfrescarmi.

Quante volte dal folto di questo pandemonio, allorchè udivo appena il cannone di Sant'Elmo scaricato a mezzogiorno negli orecchi di Napoli, ho mandato un pensiero e un sospiro alla languida signora dell'Adriatico, ai suoi vuoti palazzi ed al silenzio de' suoi canali che lascia intendere il fiotto dei remi d'una gondola lontana e il tubare de' colombi su le cuspidi delle sue torri affilate! – Bellissime ambedue queste regine del mare, ma quanto diversamente belle! – Su la laguna posa languidamente la bellissima e pallida matrona, stanca sotto il peso degli anni, povera in mezzo alle sue gemme, ma ricca d'orgoglio per antica nobiltà. Ai piedi del Vesuvio, la voluttuosa e procace Almea, balla in ciabatte la tarantella, e canta e suda povera di tutto, ma ricca di speranze, di giovinezza e di sangue. Quella si nutrisce di mestizia e di gloria; questa, di maccheroni e di luce. Quella coperta di laceri broccati, ma lindi; questa seminuda e lercia, dalle ciabatte sfondate alla folta chioma nerissima ed arruffata.

LETTERA II.

Dove si parla della popolazione

Napoli, 8 maggio 1877.

S'io ti dovessi dipingere i colori del camaleonte o disegnarti le forme di Proteo, in verità mi sentirei meno imbrogliato che a darti una netta definizione di quello che mi è sembrato essere il carattere di questo popolo.

È così instabile, così pieno di contradizioni; si presenta sotto tanti e così disparati aspetti dagli infiniti punti di vista da cui può essere osservato, che su le prime è impossibile raccapezzarsi. Ad un tratto ti sembreranno ingenue creature e ti sentirai portato ad amarle; non avrai anche finito di concepire questo sentimento che ti appariranno furfanti matricolati. Ora laboriosissimi per parerti dopo accidiosi; talvolta sobrii come Arabi del deserto, tal'altra intemperanti come parasiti; audaci e generosi in un'azione, egoisti e vigliacchi in un'altra. Passano dal riso al pianto, dalla gioja più schietta all'ira più forsennata, con la massima rapidità, per modo che in un momento li crederesti deboli donne o fanciulli, in un altro, uomini in tutto il vigore della parola; insomma, la loro indole non saprei in massima definirla altro che con la parola: anguilliforme , poichè ti guizza, ti scivola così rapidamente da ogni parte che quando credi d'averla afferrata, allora proprio è quando ti scapola e ti lascia con tanto di naso e con le mani in mano.

Spieghiamoci subito. Sappi dunque che dicendoti tutto quello che ti dirò di questo popolo, intendo soltanto parlarti dell'ultima plebe. In un paese, dove i quattro quinti della popolazione sono rappresentati da questo ceto, è naturale che un viaggiatore, il quale, come me, non se ne proponga uno scopo di studio, non veda altro che quello. L'aristocrazia l'ho appena osservata a Chiaja nell'ora del passeggio, e non ne conosco altro che lo sfarzo vistoso degli abiti e degli equipaggi. Di quello che si chiama il medio ceto, ho avvicinato soltanto una ventina di rispettabili e care persone, delle quali non saprei dir mai tutto quel bene che si meritano, e non mi son curato d'altro e non sono andato più in là.

La plebe sola, questa massa enorme di straccioni, in mezzo ai quali quasi si perdono e sembrano ospitalmente tollerati gli altri ceti, mi ha dato nell'occhio ed ho preso diletto ad osservarla, come ora mi divertirò a dirtene quello che me ne è sembrato, buttando da parte quella rancida lira che ogni rispettabile citrullo, capitando in questo paese, agguanta insatirito per cantare il vieto inno di moda alla Sirena, senza capire che è tempo di smetterla, perchè di Grazielle, di chitarre e di Sirene se n'è detto già tanto che ora basta.

Di tutte le plebi, in mezzo alle quali mi son ritrovato girellando per l'Italia, quella di Napoli è senza dubbio la più originale e la più grottesca di tutte. Basta guardare in viso questa gente per capire che son furbi come gatti; serve dare un'occhiata alle loro membra per ammirarne la eleganza delle proporzioni e per ridere del modo, col quale le adoperano negli usi più comuni della vita. Allorchè parlano, la lingua è il membro che soffre minore attrito di tutti. Chiudono gli occhi, li riaprono e li battono come bertucce; sgualciscono le labbra; con le mani affettano l'aria in tutti i sensi; si scuotono, si torcono su la vita in modo che qualche volta la lingua si mette in riposo assoluto e conversano ed esprimono i più riposti sentimenti dell'animo con un gergo tacito che chiamerei semaforico , corrugando la fronte, stralunando gli occhi e lavorando di braccia, di mani e di dita come allievi perfetti del più accreditato istituto di sordomuti.

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