Anton Barrili - La notte del Commendatore
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A tutta prima, quel luogo gli era parso un po' troppo signorile e da farlo stare in soggezione col vicinato. Ciò pel di fuori. Quanto all'interno, la camera era più stretta, e Filippo Bertone pensava con raccapriccio che non avrebbe potuto scaldarcisi nell'inverno, come nell'altra in via degli Argentieri.
Il nostro Bertone ci aveva un metodo suo per riscaldarsi d'inverno. Andava in volta su e giù per la camera, imprimendo alle braccia penzoloni un moto isocronico che le faceva combinare ad ogni tratto in croce di Sant'Andrea, mentre le palme andavano regolarmente a battere sotto le ascelle. S'intende che a queste nozze non era invitato il giubbone color di tabacco. Poverino! Un altro poco di strofinio, e se n'andava in isbrendoli.
Filippo Bertone aveva ingegno, e il lettore ha già capito, da una certa stoccata del Balestra all'amico Ferrero, che egli in iscuola faceva qualche volta il lavoro suo e quello degli altri. Ma la sua valentìa non si fermava lì; che a volte, trattandosi di broda scolastica, anche uno sgobbone ci riesce. Filippo non era solamente un giovine studioso; aveva, come suol dirsi, due corde al suo arco, la svegliatezza e la costanza, due cose che vanno così raramente di conserva nei giovani.
Come mai questo miracolo di ragazzo era nato da un umile maniscalco e da una povera massaia di villaggio? Arcani impenetrabili dell'esistenza, i quali, bisogna pur dirlo, sono spesso mirabilmente aiutati dalla mancanza di svaghi d'una casa tapina e dalla fortunata presenza d'una buona scuola di provincia.
Dopo tutto, gli è per l'appunto in provincia che si vedono di questi prodigi. Nelle capitali (e un italiano può aggiungere eziandio nelle metropoli) le buone scuole sono molto più rade; forse per la ragione che il maestro non può darsi intieramente alla cattedra, essere totus in illa , come direbbe Orazio, tanti sono i sopraccapi che lo frastornano, gli svaghi che lo trattengono, le ambizioni che lo tirano in alto. I mediocri, e spesso anche i bisognosi, ci aggiungono la cura delle ripetizioni a casa, conseguenza e cagione a sua volta delle distrazioni in iscuola.
Guardate in quella vece il collegio d'una città di provincia. Le voci, i rumori, le vanità profane del mondo, o non giungono laggiù, o vi mandano a mala pena un'eco affievolita, cioè a dire quanto basta perchè laggiù non si credano a dirittura segregati dal mondo. E fermi lì; il maestro non pensa che alla scuola; ci si distende, dirò meglio, ci si sprofonda; può darsi che ci si dimentichi, può darsi anco che ci si adiri; ma non dubitate, c'è tutto. Spesso è una vittima del cieco caso; frate, chierico, o secolare che sia, è un ingegno che in altri tempi avrebbe potuto dar frutti per sè, e in quella vece s'è ridotto a far fruttificare l'ingegno degli altri. Lo si direbbe un albero che s'adatta a far da palo, e si lascia coprir tutto dai pampini della vite che gli s'intreccia ai rami, e si sostiene, s'innalza, si soleggia per lui. E tuttavia, dura in quell'uomo il sentimento della sua forza, comunque rimasta inoperosa e latente. Sansone dai capegli recisi, aquila a cui furono tronche le penne maestre medita le grandi intraprese, anela agli spazi lontani; e questa sua bramosìa, questo bisogno d'altro, si apprendono allo scolaro. Un maestro cosiffatto ama espandersi, mettere in comune co' suoi discepoli ciò che ha studiato e ciò che viene man mano leggendo. Con chi altri potrebbe parlarne, chetare i bollori della sua mente, avida da un tempo e riboccante di nuovi tesori? Donde avviene che, imbevuti di quella pioggia assidua e benefica, i giovani alunni escano dal collegio più colti e meglio compresi della vita nuova, che non i loro compagni delle grandi città, dove pure questa vita è pane quotidiano, aria respirabile… e chi più n'ha ne metta.
Bisogna dire altresì che lo scolaro ha meno svaghi in provincia. La famiglia, se egli è nato colà, il convitto, se egli c'è giunto da fuori, hanno consuetudini patriarcali. Non feste, non teatri, non allegri ritrovi; qualche sagra tutt'al più; riposo, non turbamento dello spirito. Però la sua vita si raccoglie tutta in iscuola; anch'egli è totus in illa . In tal guisa s'incarna il concetto degli antichi spartani; che certo non volevano la vita chiusa del ginnasio, se non perchè l'adolescente vi si foggiasse il suo mondo. E là i fanciulli s'innamorano sul sodo di quello che studiano, dei greci, dei romani, dei cavalieri e dei bardi, tutta brava gente che, usciti di là, non troveranno più alla prima tappa, ma con cui fa bene aver vissuto un pochino e con una certa dimestichezza fraterna. Credete che tutte quelle larve del passato serviranno poco nel futuro? Sia pure; a noi basta che abbiano svegliato, aperto l'animo giovanile ai concetti del bello e del grande. E badate; se cova in quelle tenere menti una scintilla del fuoco sacro «che il figlio addusse di Giapeto in terra» quella salda, intensa ed amorosa preparazione della scuola di provincia, la nutrirà, la sprigionerà, la farà divampare in incendio.
A Mondovì il giovinetto Filippo Bertone era citato come un genio nascente. Suo padre, facendo sforzi inauditi per metter d'accordo volere e potere, lo avea mandato agli studi in Torino. E il nostro adolescente, che amava svisceratamente suo padre ed era al fatto dei sacrifizi della famiglia per lui, aveva vissuto otto mesi a Torino, cioè a dire tutto l'anno scolastico, senza oltrepassare le quattrocento lire di spesa, tra alloggio, vitto e quel po' di bucato. Era un miracolo di risparmio, per verità. E non si è detto ancora ogni cosa. Su quella somma il povero studente di filosofia ci aveva fatto anche le male spese. Verbigrazia, era andato una volta al teatro Regio per sentire il Mosè, ed aveva pagato dieci lire un'opera di entomologia, scompleta, se vogliamo, ma corredata di molte tavole in rame. Imperocchè, bisogna sapere che la storia naturale era il debole di Filippo Bertone.
Ma intanto, e con tutta la sua assegnatezza di quell'anno passato a Torino, egli doveva accorgersi che anche quattrocento lire erano un troppo grave sdruscio nelle entrate d'una famiglia che campava col lavoro quotidiano e che ci aveva per giunta due fanciulle da accasare. Ne aveva a ferrare dei muli, il povero babbo! Ne aveva a cavare del sangue, nella sua sussidiaria qualità di flebotomo!
Pure, tanto era nel figlio l'amore allo studio, tanta era la onesta ambizione nel padre, che questi al finire delle vacanze, gli aveva posto in mano dugento lire, strappate a fatica da tutti i capi del bilancio domestico, e lo aveva rimandato a Torino.
–Ci caveremo la fame coll'appetito;—aveva detto il vecchio con una fermezza da stoico;—ma tu diventerai un gran medico.—
Il lettore di certo avrà capito che la storia naturale portava la medicina. Del resto, il figlio d'un flebotomo doveva diventar medico, essere il complemento del padre.
Ed era tornato a Torino, mesto nel cuore, ma pieno di buona volontà e di coraggio. Il suo giubbone di color tabacco non gli faceva vergogna. Gli scaffali delle biblioteche, amicissimi suoi, nel rivederlo con quell'eterno giubbone, non glielo avrebbero mica apposto a delitto. Quanto al sogghigno della scolaresca, non gliene importava un bel nulla. Dopo tutto, egli era sempre così contegnoso e stava così poco in orecchio, che le risa dei compagni non giungevano a lui.
Entrato nella capitale, che non contava più di rivedere, e presa la sua iscrizione pel primo anno di medicina, Filippo Bertone era andato ad ossequiare i suoi futuri professori. Si usava poco di farlo; epperò la sua visita tornava tanto più grata a quei parrucconi, in quanto se l'aspettavano meno. Uno di essi, buon vecchio e gran luminare dell'arte, lo aveva squadrato ben bene dal capo alle piante, e, vistolo così male in arnese, gli si era affezionato alla bella prima. Anche lui, il vecchio Esculapio, venuto a' suoi tempi dalla montagna, aveva cominciato così, e amava ricordarsene.
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