Roberto Saviano - Gomorra

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Non c'è alcun pericolo. Ma bisogna strillare l'arresto, mostrare che si è riusciti a prendere l'imprendibile, ad arrestare il boss. Quando arriva il carosello di blindati e volanti, e i carabinieri vedono che i giornalisti sono già presenti all'entrata della caserma, si siedono sulla portiera dell'auto a cavalcioni. Finestrini come sellini, impugnano vistosamente la pistola, hanno sul viso il passamontagna e indossano la pettorina dei carabinieri. Dopo l'arresto di Giovanni Brusca non c'è carabiniere e poliziotto che non voglia farsi riprendere in quella posizione. Lo sfogo per le nottate d'appostamenti, la soddisfazione per la preda catturata, la furbizia da ufficio stampa per occupare le prime pagine con certezza. Quando Paolo Di Lauro esce dalla caserma, non ha la spavalderia di suo figlio Cosimo, si piega in due, faccia per terra, lascia solo la pelata nuda a telecamere e fotografi. È forse soltanto un modo per tutelarsi. Farsi fotografare da centinaia di obiettivi da ogni angolatura, farsi riprendere da decine di telecamere avrebbe mostrato il suo volto a tutt'Italia, facendo magari denunciare a ignari vicini di casa di averlo visto, di essergli stati vicino. Meglio non agevolare le indagini, meglio non disvelare i propri percorsi clandestini. Ma qualcuno legge la sua testa bassa come semplice fastidio per flash e telecamere, il fastidio di essere ridotto a bestia da mostra.

Dopo alcuni giorni Paolo Di Lauro venne portato in tribunale, nell'aula 215. Presi posto tra il pubblico di parenti. L'unica parola che il boss pronunciò fu "presente". Tutto il resto lo articolò senza voce. Gesti, occhiolini, ammiccamenti, sorrisi, divengono la sintassi muta attraverso cui comunica dalla sua gabbia. Saluta, risponde, rassicura. Alle mie spalle prese posto un omone brizzolato. Paolo Di Lauro sembrava fissarmi, in realtà aveva intravisto l'uomo dietro me. Si guardarono per qualche secondo, poi il boss gli fece l'occhiolino.

Sembrava che dopo aver saputo la notizia dell'arresto molti fossero venuti a salutare il boss che per anni, a causa della latitanza, non avevano potuto incontrare. Paolo Di Lauro era in jeans e polo scura. Ai piedi le Paciotti, le scarpe che indossano tutti i dirigenti dei clan da queste parti. I secondini gli liberarono i polsi togliendogli i ceppi, le manette. Per lui un'unica gabbia. In aula entra tutto il gotha dei clan del nord di Napoli: Raffaele Abbinante, Enrico D'Avanzo, Giuseppe Cri-scuoio, Arcangelo Valentino, Maria Prestieri, Maurizio Pre-stieri, Salvatore Britti e Vincenzo Di Lauro. Uomini ed ex uomini del boss, ora divisi in due gabbie: fedeli e Spagnoli. Il più elegante è Prestieri, giacca blu e camicia oxford azzurra. E lui il primo che dal gabbione si avvicina al vetro di protezione che lo separa dal boss. Si salutano. Arriva anche Enrico D'Avanzo, riescono persino a bisbigliare qualcosa tra le fessure del vetro antiproiettile. Molti dirigenti non lo vedevano da anni. Suo figlio Vincenzo non lo incontra più da quando nel 2002 divenne latitante, rifugiandosi a Chivasso in Piemonte dove fu arrestato nel 2004.

Non staccai lo sguardo dal boss. Ogni gesto, ogni smorfia mi sembrava sufficiente per riempire intere pagine di interpretazioni, per fondare nuovi codici della grammatica dei gesti. Col figlio però avvenne un dialogo silenzioso strano. Vincenzo indicò con l'indice l'anulare della sua mano sinistra come per chiedere al padre: "La fede?". Il boss si passò le mani ai lati della testa, poi mimò un volante come se stesse guidando. Non riuscivo a decifrare bene i gesti. L'interpretazione che i giornali ne diedero fu che Vincenzo aveva chiesto al padre come mai fosse senza la fede e il padre gli avesse fatto capire che i carabinieri gli avevano tolto tutto l'oro. Dopo i gesti, gli ammiccamenti, i labiali veloci, gli occhiolini e le mani attaccate sul vetro blindato, Paolo Di Lauro si bloccò in un sorriso guardando il figlio. Si diedero un bacio attraverso il vetro. L'avvocato del boss al termine dell'udienza chiese di poter permettere un abbraccio tra i due. Venne concesso. Sette poliziotti lo presidiarono:

"Sei pallido" disse Vincenzo e il padre gli rispose fissandolo negli occhi: "Da molti anni questa faccia non vede il sole".

I latitanti arrivano spesso allo stremo delle forze prima di essere catturati. La fuga continua mostra l'impossibilità di godere della propria ricchezza e questo rende i boss ancora più in simbiosi con il proprio stato maggiore, che diviene l'unica vera misura del loro successo economico e sociale. I sistemi di protezione, la morbosa e ossessiva necessità di pianificare ogni passo, la parte maggiore del tempo rinchiusi in una stanza a moderare e coordinare gli affari e le imprese fanno vivere i boss in latitanza come ergastolani del proprio business. Una signora nell'aula del tribunale mi raccontò un episodio della latitanza di Di Lauro. D'aspetto poteva sembrare una professoressa, aveva una tintura più gialla che bionda, con evidente ricrescita alla scriminatura. Quando iniziò a parlare aveva una voce rauca e pesante. Raccontava di quando Paolo Di Lauro ancora girava per Secondigliano costretto a muoversi con strategie meticolose. Sembrava quasi fosse dispiaciuta per le privazioni del boss. Mi confidava che Di Lauro aveva cinque auto dello stesso colore, modello e targa. Le faceva partire tutte e cinque quando doveva spostarsi, ma ovviamente sedeva solo in una. Tutte e cinque avevano la scorta e nessuno dei suoi uomini sapeva con certezza se nell'auto ci fosse lui o meno. La macchina usciva dalla villa e loro si accodavano dietro per scortarla. Un modo sicuro per evitare tradimenti: fosse anche quello più immediato di segnalare che il boss si stava muovendo. La signora lo raccontava con un tono di profonda commiserazione per la sofferenza e la solitudine di un uomo sempre costretto a pensare di essere ammazzato. Dopo le tarantelle di gesti e abbracci, dopo i saluti e gli ammiccamenti dei personaggi appartenenti al potere più feroce di Napoli, il vetro blindato che separava il boss dagli altri era pieno di tracce di tutt'altro tipo: manate, strisce di grasso, ombre di labbra.

Dopo meno di ventiquattr'ore dall'arresto del boss, venne trovato alla rotonda di Arzano un ragazzo polacco che tremava come una foglia mentre cercava con difficoltà di buttare nella spazzatura un enorme fagotto. Il polacco era imbrattato di sangue e la paura rendeva difficile ogni suo gesto. Il fagotto era un corpo. Un corpo martoriato, torturato, sfigurato in modo talmente atroce che sembrava impossibile si potesse conciare così un corpo. Una mina fatta inghiottire a qualcuno e poi esplosa nello stomaco avrebbe fatto meno scempio. Il corpo era di Edoardo La Monica, ma non si distinguevano più i lineamenti. La faccia aveva soltanto le labbra, il resto era tutto sfondato. Il corpo pieno zeppo di buchi era ovunque incrostato di sangue. L'avevano legato e poi con una mazza chiodata seviziato lentamente, per ore. Ógni botta sul corpo era un foro, botte che non rompevano solo le ossa ma foravano la carne, chiodi che entravano e uscivano. Gli avevano tagliato le orecchie, mozzato la lingua, spaccato i polsi, cavato gli occhi con un cacciavite, da vivo, da sveglio, da cosciente. E poi per ucciderlo gli avevano sfondato la faccia con un martello e con un coltello inciso una croce sulle labbra. Il corpo doveva finire nella spazzatura per farlo ritrovare marcio, tra la monnezza in una discarica. Il messaggio scritto sulla carne viene da tutti decifrato con chiarezza, anche se non vi sono altre prove che quella tortura. Tagliate le orecchie con cui hai sentito dove il boss era nascosto, spezzati i polsi con cui hai mosso le mani per ricevere i soldi, cavati gli occhi con cui hai visto, tagliata la lingua con la quale hai parlato. La faccia sfondata che hai perso dinanzi al Sistema facendo quello che hai fatto. Sigillate le labbra con la croce: chiuse per sempre dalla fede che hai tradito. Edoardo La Monica era incensurato. Un cognome pesantissimo il suo, quello di una delle famiglie che avevano reso Secondigliano terra di camorra e miniera d'affari. La famiglia dove Paolo Di Lauro aveva mosso i primi passi. La morte di Edoardo La Monica somiglia a quella di Giulio Ruggiero. Entrambi dilaniati, torturati con meticolosità a poche ore dagli arresti dei boss. Scarnificati, pestati, squartati, scuoiati. Da anni non si vedevano più omicidi con così tanta diligente e sanguinaria volontà simbolica: con la fine del potere di Cutolo e del suo killer Pasquale Barra detto "'o rumale" famoso per aver ucciso in carcere Francis Turatello, e avergli azzannato il cuore dopo averglielo strappato dal petto con le mani. Queste ritualità si erano estinte, ma la faida di Secondigliano le aveva riesumate rendendo ogni gesto, ogni centimetro di carne, ogni parola uno strumento di comunicazione di guerra.

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