Dopo cena mio padre andò in paese. Era un fatto insolito, ma non gli chiesi perché ci volesse andare. Aveva l’aria stanca, dopo aver passato tutta la giornata ad arrampicarsi sulla scala e ad allungarsi, ma salì in camera sua, si mise gli abiti che usa ogni volta che va a Portneil, e ritornò zoppicando in salotto per salutarmi.
«Be’, allora io esco» disse. Si mise a ispezionare con lo sguardo il salotto, come per scoprire se avessi già commesso qualche atrocità, addirittura prima che lui fosse uscito. Continuai a guardare la televisione e annuii senza rivolgergli neanche un’occhiata.
«Sta’ tranquillo» dissi.
«Non farò tardi. Non c’è bisogno che ti chiuda a chiave.»
«Va bene.»
«Ti comporterai bene, allora?»
«Oh sì.» Lo guardai, incrociai le braccia e sprofondai ancora di più nella vecchia poltrona. Indietreggiò, con i piedi nell’ingresso e il corpo inclinato verso il salotto. Solo la mano sulla maniglia della porta gli impediva di cadere. Mi fece ancora un cenno, mentre il berretto gli si abbassava sulla testa.
«Bene. A più tardi. Ci vediamo… mi raccomando.»
Sorrisi e ritornai a guardare lo schermo. «Sì, papà. Ci vediamo.»
«Mmh» disse, e dopo un’ultima occhiata al salotto, come a controllare se fosse sparita l’argenteria, chiuse la porta e sentii il rumore dei suoi passi nell’ingresso e poi fuori dalla porta principale. Lo vidi salire per il sentiero, aspettai un attimo, dopodiché salii al piano di sopra e provai ad aprire la porta dello studio che, come al solito, come sempre, era così fissa che avrebbe potuto benissimo far parte del muro.
Sonnecchiai per un po’. La luce fuori si stava facendo sempre più debole, alla tv c’era un orribile telefilm americano, e la testa mi faceva male. Strabuzzai gli occhi cisposi, sbadigliai per spiccicare le labbra e farmi entrare un po’ d’aria nella bocca impastata. Stavo stiracchiandomi tra uno sbadiglio e l’altro quando mi fermai di scatto. Il telefono si era messo a squillare.
Balzai in piedi, incespicai, per poco non caddi. Raggiunsi la porta, l’ingresso, la scala, e infine il telefono, più in fretta possibile. Sollevai il ricevitore con la mano destra, quella ferita. Premetti la cornetta sull’orecchio.
«Pronto» dissi.
«Ciao, Frank, come te la passi?» disse Jamie. Provai un misto di sollievo e disappunto. Sospirai.
«Ah, Jamie. Sto bene. E tu?»
«Sono a casa dal lavoro. Mi è caduta un’asse sul piede stamattina, e adesso è tutto gonfio.»
«Niente di serio, spero.»
«No. Starò a riposo per il resto della settimana, se mi va bene. Vado dal medico domani a farmi fare un certificato. Comunque volevo dirti che rimango a casa per il resto del giorno. Puoi portarmi da bere, se vuoi.»
«D’accordo. Forse passo domani. Ti chiamo prima per dirtelo.»
«Bene. Altre notizie da chi sai tu?»
«Niente. Pensavo che fosse lui quando ho sentito il telefono.»
«Sì, lo sapevo che l’avresti pensato. Non ti preoccupare. Non ho sentito niente in giro, pare che di stranezze non se ne siano viste, quindi forse non è ancora arrivato.»
«Sì, ma io vorrei rivederlo. Non vorrei proprio che si rimettesse a fare le solite stronzate. So che se ne dovrà comunque andare via da qui, anche se non combina niente, ma io voglio vederlo. Vorrei tutt’e due le cose, capisci?»
«Sì, sì. Andrà tutto bene, alla fine. Non ti preoccupare.»
«Non mi preoccupo.»
«Bene. Senti, io esco a comprare qualche pinta di anestetico giù al Cauldhame. Ti va di venire?»
«No, grazie. Sono a pezzi. Sono in piedi da stamattina presto. Ci vediamo domani.»
«D’accordo. Stammi bene. Ci vediamo, Frank.»
«Bene, Jamie. Ciao.»
«Ciao» disse Jamie. Riattaccai e tornai di sotto per cercare qualcosa di migliore in televisione, ma non feci in tempo a fare tutti gli scalini che il telefono squillò di nuovo. Tornai su. Mentre salivo sentii un ronzio nella testa e pensai che potesse essere Eric, ma la mia mente non percepiva i bip-bip. Feci un sogghigno e dissi: «Allora? Hai dimenticato qualcosa?»
« Dimenticato? Io non mi dimentico un bel niente! Mi ricordo sempre tutto! Tutto! » urlò una voce familiare dall’altro capo del telefono.
Mi si irrigidirono le membra. Deglutii e dissi: «Ehm…»
«Perché mi accusi di dimenticarmi le cose? Cosa mi stai accusando di dimenticare? Che cosa? Non mi sono dimenticato un bel niente!» esclamò Eric sputacchiando.
«Eric, scusami. Pensavo che fosse un’altra persona.»
« Sono io! » urlò. «Non sono un’altra persona! Sono io! Io! »
«Pensavo che fosse Jamie» dissi io in tono lamentoso, chiudendo gli occhi.
«Quel nano schifoso? Sei un bastardo!»
«Mi dispiace, io…» Poi mi interruppi un attimo per riflettere. «Come ti permetti di chiamarlo “nano schifoso”? È un mio amico. Non è colpa sua se è basso.»
«Ah sì?» rispose Eric. «E come fai a saperlo?»
«Che significa come faccio a saperlo? Non è colpa sua se è nato così» dissi io cominciando ad arrabbiarmi veramente.
«Hai solo la sua parola.»
«Ho solo la sua parola? In che senso?» chiesi io.
«Che è un nano» sputacchiò Eric.
«Che?» urlai, quasi incapace di credere alle mie orecchie. «Lo vedo, che è un nano. Idiota!»
«È quello che lui vuole farti credere. Forse in realtà è un alieno. Forse gli altri della sua razza sono ancora più piccoli di lui. Come fai a sapere che non è un alieno gigante di una razza di alieni piccoli? Eh?»
«Non fare il cretino!» urlai nella cornetta, afferrandola con la mano bruciata e dolorante.
«Be’, non dire che non ti ho avvertito!» gridò Eric.
«Non preoccuparti!» urlai io in risposta.
«Comunque» disse Eric in un tono di voce improvvisamente calmo, tanto che per un secondo o due pensai di stare parlando con qualcun altro, visto che aveva cominciato a fare una conversazione sorprendentemente normale. «Come stai?»
«Eh?» dissi io in tono un po’ confuso. «Ah, bene. Bene. E tu come stai?»
«Oh, niente male. Ci sono quasi.»
«Dove? Qui?»
«No. Là. Cristo, come fa la linea a essere disturbata a una distanza così?»
«A quale distanza? Eh? Come fa? E che ne so.» Mi toccai la fronte con l’altra mano, con la sensazione che stessi completamente perdendo il filo del discorso.
«Ci sono quasi» ripeté Eric con voce stanca. Fece un sospiro. «Non sto arrivando qui. Sono già qui. Sto arrivando là. Come potrei chiamarti se fossi già qui?»
«Ma dov’è qui ?» chiesi io.
«Vuoi dire che non sai dove sei? Di nuovo?» esclamò incredulo Eric. Chiusi gli occhi e sbuffai con rassegnazione. Lui continuò: «E hai il coraggio di accusare me di dimenticarmi le cose? Ah ah!»
«Senti, tu sei completamente pazzo!» urlai io contro la plastica verde della cornetta stringendola sempre di più. Sentivo le fitte di dolore che mi salivano lungo il braccio, mentre la faccia mi si contorceva. «Non ne posso più delle tue telefonate. Prima mi chiami e poi ti comporti apposta in modo spaventoso. Smettila di fare questi giochetti!» rantolai, ormai a corto di fiato. «Sai bene cosa voglio dire quando dico “qui”! Voglio dire dove diavolo sei tu! Io so dove sono. Smettila di fare confusione, va bene?»
«Mmmh. Certo, Frank» disse Eric con tono di sufficienza. «Scusami se ti ho fatto arrabbiare.»
«Insomma…» avevo cominciato di nuovo a urlare, poi ripresi il controllo e mi calmai, respirando profondamente. «Senti… ecco… non trattarmi a quel modo. Ti ho solo chiesto dove sei.»
«Sì, va bene, Frank. Capisco» disse Eric pacatamente. «Ma proprio non posso dirti dove sono, altrimenti qualcuno potrebbe origliare. Lo vedi anche tu che non posso, vero?»
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