Chiesi a Cinto se i noccioli li aveva ancora conosciuti. Piantato sul piede sano, mi guardò incredulo, e mi disse che in fondo alla riva ce n’era ancora qualche pianta. Voltandomi a parlare, avevo visto sopra le viti la donna nera che ci osservava dall’aia. Mi vergognai del mio vestito, della camicia, delle scarpe. Da quanto tempo non andavo piú scalzo? Per convincere Cinto che un tempo ero stato anch’io come lui, non bastava che gli parlassi cosí di Gaminella. Per lui Gaminella era il mondo e tutti gliene parlavano cosí. Che cosa avrei detto ai miei tempi se mi fosse comparso davanti un omone come me e io l’avessi accompagnato nei beni? Ebbi un momento l’illusione che a casa mi aspettassero le ragazze e la capra e che a loro avrei raccontato glorioso il grande fatto.
Adesso Cinto mi veniva dietro interessato. Lo portai fino in fondo alla vigna. Non riconobbi piú i filari; gli chiesi chi aveva fatto il trapianto. Lui cianciava, si dava importanza, mi disse che la madama della Villa era venuta solo ieri a raccogliere i pomodori. – Ve ne ha lasciati? – chiesi. – Noi li avevamo già raccolti, – mi disse.
Dov’eravamo, dietro la vigna, c’era ancora dell’erba, la conca fresca della capra, e la collina continuava sul nostro capo. Gli feci dire chi abitava nelle case lontane, gli raccontai chi ci stava una volta, quali cani avevano, gli dissi che allora eravamo tutti ragazzi. Lui mi ascoltava e mi diceva che qualcuno ce n’era ancora. Poi gli chiesi se c’era sempre quel nido dei fringuelli sull’albero che spuntava ai nostri piedi dalla riva. Gli chiesi se andava mai nel Belbo a pescare con la cesta.
Era strano come tutto fosse cambiato eppure uguale. Nemmeno una vite era rimasta delle vecchie, nemmeno una bestia; adesso i prati erano stoppie e le stoppie filari, la gente era passata, cresciuta, morta; le radici franate, travolte in Belbo – eppure a guardarsi intorno, il grosso fianco di Gaminella, le stradette lontane sulle colline del Salto, le aie, i pozzi, le voci, le zappe, tutto era sempre uguale, tutto aveva quell’odore, quel gusto, quel colore d’allora.
Gli feci dire se sapeva i paesi intorno. Se era mai stato a Canelli. C’era stato sul carro quando il Pa era andato a vendere l’uva da Gancia. E certi giorni traversavano Belbo coi ragazzi del Piola e andavano sulla ferrata a veder passare il treno.
Gli raccontai che ai miei tempi questa valle era piú grande, c’era gente che la girava in carrozza e gli uomini avevano la catena d’oro al gilè e le donne del paese, della Stazione, portavano il parasole. Gli raccontai che facevano delle feste – dei matrimoni, dei battesimi, delle Madonne – e venivano da lontano, dalla punta delle colline, venivano i suonatori, i cacciatori, i sindaci. C’erano delle case – palazzine, come quella del Nido sulla collina di Canelli – che avevano delle stanze dove stavano in quindici, in venti, come all’albergo dell’Angelo, e mangiavano, suonavano tutto il giorno. Anche noi ragazzi in quei giorni facevamo delle feste sulle aie, e giocavamo, d’estate, alla settimana; d’inverno, alla trottola sul ghiaccio. La settimana si faceva saltando su una gamba sola, come stava lui, su delle righe di sassolini senza toccare i sassolini. I cacciatori dopo la vendemmia giravano le colline, i boschi, andavano su da Gaminella, da San Grato, da Camo, tornavano infangati, morti, ma carichi di pernici, di lepri, di selvaggina. Noi dal casotto li vedevamo passare e poi fino a notte, nelle case del paese, si sentiva far festa, e nella palazzina del Nido laggiú – allora si vedeva, non c’erano quegli alberi – tutte le finestre facevano luce, sembrava il fuoco, e si vedevano passare le ombre degli invitati fino al mattino.
Cinto ascoltava a bocca aperta, con la sua crosta sotto l’occhio, seduto contro la sponda.
– Ero un ragazzo come te, – gli dissi, – e stavo qui con Padrino, avevamo una capra. Io la portavo in pastura. D’inverno quando non passavano piú i cacciatori era brutto, perché non si poteva neanche andare nella riva, tant’acqua e galaverna che c’era, e una volta – adesso non ci sono piú – da Gaminella scendevano i lupi che nei boschi non trovavano piú da mangiare, e la mattina vedevamo i loro passi sulla neve. Sembrano di cane ma sono piú profondi. Io dormivo nella stanza là dietro con le ragazze e sentivamo di notte il lupo lamentarsi che aveva freddo nella riva…
– Nella riva l’altr’anno c’era un morto, – disse Cinto.
Mi fermai. Chiesi che morto.
– Un tedesco, – mi disse. – Che l’avevano sepolto i partigiani in Gaminella. Era tutto scorticato…
– Cosí vicino alla strada? – dissi.
– No, veniva da lassú, nella riva. L’acqua l’ha portato in basso e il Pa l’ha trovato sotto il fango e le pietre…
Intanto dalla riva veniva lo schianto di una roncola contro il legno, e a ogni colpo Cinto batteva le ciglia.
– È il Pa, – disse, – è qui sotto.
Io gli chiesi perché prima teneva chiusi gli occhi mentre io lo guardavo e le donne parlavano. Subito li richiuse, d’istinto, e negò di averlo fatto. Mi misi a ridere e gli dissi che facevo anch’io questo gioco quand’ero ragazzo – cosí vedevo solamente le cose che volevo e quando poi riaprivo gli occhi mi divertivo a ritrovare le cose com’erano.
Allora scoprí i denti contento e disse che facevano cosí anche i conigli.
– Quel tedesco, – dissi, – sarà stato tutto mangiato dalle formiche.
Un urlo della donna dall’aia, che chiamava Cinto, voleva Cinto, malediceva Cinto, ci fece sorridere. Si sente spesso questa voce sulle colline.
– Non si capiva piú come l’avevano ammazzato, – disse lui. – È stato sottoterra due inverni…
Quando franammo tra le foglie grasse, i rovi e la menta del fondo, il Valino alzò appena la testa. Stava troncando con la roncola sul capitozzo i rami rossi d’un salice. Come sempre, mentre fuori era agosto, quaggiú faceva freddo, quasi scuro. Qui la riva una volta portava dell’acqua, che d’estate faceva pozza.
Gli chiesi dove metteva i salici a stagionare, quest’anno ch’era cosí asciutto. Lui si chinò a far su il fastello, poi cambiò idea. Rimase a guardarmi, rincalzando col piede i rami e attaccandosi dietro i calzoni la roncola. Aveva quei calzoni e quel cappello inzaccherati, quasi celesti, che si mettono per dare il verderame.
– C’è un’uva bella quest’anno, – gli dissi, – manca solo un po’ d’acqua.
– Qualcosa manca sempre, – disse il Valino. – Aspettavo Nuto per quella tina. Non viene?
Allora gli spiegai ch’ero passato per caso da Gaminella e avevo voluto rivedere la campagna. Non la conoscevo piú, tant’era stata lavorata. La vigna era nuova di tre anni, no? E in casa – gli chiesi – anche in casa ci avevano lavorato? Quando ci stavo io, c’era il camino che non tirava piú – l’avevano poi rotto quel muro?
Il Valino mi disse che in casa stavano le donne. Loro, ci devono pensare. Guardò su per la riva in mezzo alle foglioline delle albere. Disse che la campagna era come tutte le campagne, per farla fruttare ci sarebbero volute delle braccia che non c’erano piú.
Allora parlammo della guerra e dei morti. Dei figli non disse niente. Borbottò. Quando parlai dei partigiani e dei tedeschi, alzò le spalle. Disse che allora stava all’Orto, e aveva visto bruciare la casa del Ciora. Per un anno piú nessuno aveva fatto niente in campagna, e se tutti quegli uomini se ne fossero invece tornati a casa – i tedeschi a casa loro, i ragazzi sui beni – sarebbe stato un guadagno. Che facce, che gente – tanta gente forestiera non s’era mai vista, neanche sulle fiere di quand’era giovanotto.
Cinto stava a sentirci, a bocca aperta. Chi sa quanti, dissi, ce n’erano ancora sepolti nei boschi.
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