María Acosta
Sergio Presciutti
L’ultima opportunità
Casa editrice: Tektime
Prologo
Primavera 2014, Ancona (Marche)
Si era svegliato alle sei del mattino. Era così nervoso che non era più riuscito a prendere sonno dal momento in cui la soluzione a tutti i problemi gli era venuta in mente, così, per caso, mentre era in cucina a mangiare un po’ di crostata di mele. A volte questo dessert lo aiutava a rilassarsi, altre persone ci riuscivano prendendo un tè o un bicchiere di latte caldo. A lui, la crostata di mele faceva lo stesso effetto di una tisana. La mangiava ammodo, con diletto. Allora il suo cervello non pensava più al problema e la sua mente, in quel momento, faceva tabula rasa e cominciava a pensare daccapo. A volte funzionava e a volte no. Ma questa volta sì: il problema non c’era più.
Viveva in un appartamento di Via Flaminia, sul mare; era grande quasi duecento metri quadri, quello che gli inglesi chiamavano un loft, uno spazio enorme dove c’era l’arredo che bastava per vivere a proprio agio, con stretti tappeti colorati che dividevano lo spazio in diversi ambienti. In fondo, con una finestra dal pavimento al soffitto, c’era la cucina. Gli piaceva cucinare, e anche mangiare, ma non lo faceva spesso perché doveva lavorare come un pazzo nel suo laboratorio, un edificio moderno non molto lontano dell’antico faro di Ancona, dove c’era la vecchia stazione telegrafica da dove il suo antenato, Guglielmo Marconi, era riuscito a fare i suoi primi esperimenti sui segnali radio, nell’anno 1904. Quella storica data era già molto lontana, la tecnologia si era evoluta velocemente e, adesso, nel XXI secolo, era qualcosa di quotidiano. La tecnologia era dovunque.
Era sempre andato pazzo per la tecnologia, per i computer e per l’elettricità; da piccolo smontava i suoi giocattoli e poi li rimetteva a posto. Era sempre stato così. Poi divenne ingegnere, imparò tutto quello che gli serviva per sviluppare le sue idee e da quasi dieci anni lavorava in proprio mettendo in pratica i suoi progetti che riguardavano i computer e le comodità per i cittadini. Aveva un sacco di brevetti e adesso stava per finire un invento così rivoluzionario che non solo gli avrebbe fatto guadagnare una montagna di soldi, ma sarebbe potuto diventare un benefattore dell’Umanità. A dire il vero se ne infischiava. A lui, quello che in realtà piaceva, era la sfida in sé: pensare di poter fare qualcosa e riuscirci. Non lavorava da solo, è chiaro. Un progetto così ambizioso non sarebbe stato possibile senza l’aiuto del suo gruppo, un insieme di ingegneri di ogni tipo, bravi e svelti, a cui piaceva fare parte della sua azienda, dove nessuno era lasciato da parte: erano i migliori di tutta Italia, uomini e donne di tutte le età con l’ambizione e l’esperienza necessaria per portare avanti qualsiasi idea rivoluzionaria ma fattibile. Tutti erano bravi, tutti erano imprescindibili. Lui era il caposquadra, ma questo non significava che non lavorasse sodo. Lui era il padrone, aveva il denaro, le idee, aveva costruito il palazzo dove lavoravano, aveva acquistato le macchine, ma, allo stesso tempo, era un lavoratore dell’impresa, uno di loro. I benefici si dividevano in maniera uguale: c’era il denaro da investire in tecnologia e c’era il denaro da dividere fra tutti.
Gianluca accese il computer che era vicino alla cucina, dalla parte opposta della finestra: doveva fare qualcosa prima di uscire. Era ancora molto presto. Se avesse potuto sviluppare la sua idea prima di andare al lavoro!
Credeva di sì.
L’appartamento dove viveva era stato ristrutturato da lui stesso. Tutto quello che aveva a che vedere con la tecnologia era opera sua: i pavimenti pirolitici, le luci che si accendevano da sole a seconda di dove si trovasse in quel momento, gli scaffali nascosti tra le pareti, i mobili trasformabili e muniti di ruote che si muovevano tramite il controllo remoto con l’aiuto di led posizionati ai lati, i tappeti ignifughi che cambiavano colore a seconda della luce che entrava attraverso le finestre. E ancora le stesse finestre infrangibili, i mobili della cucina che non si sporcavano mai perché erano stati fabbricati con dei prodotti che respingevano la sporcizia, i tramezzi nascosti sotto il pavimento dell’appartamento che potevano apparire o scomparire con l’aiuto di un programma che controllava attraverso il computer o il tablet che utilizzava ogni giorno. Tutto questo e molto ancora erano prodotti della sua immaginazione e del suo lavoro di ingegnere. Questo non significava che fosse stato facile svilupparle, tutt’altro, aveva lavorato come un pazzo per un anno e poi un altro e un altro ancora. Non c’era una fidanzata, nemmeno una partner. La sua vita non lasciava quasi spazio ai rapporti sociali, soltanto a quelli che riguardavano il suo lavoro. Nonostante i consigli della sua mamma -“Figliuolo, non lavorare così tanto, conosci una ragazza, dovresti riposare, andare in giro per la città, dovresti divertirti”-, lui sorrideva e non diceva niente. Per lui divertirsi significava inventare una cosa nuova, il suo lavoro non era solo importante, era anche il suo principale hobby.
Ecco fatto! Era riuscito a risolvere il problema. Gianluca guardò l’orologio che era a ridosso del computer, attaccato alla parete. Era l’ora.
-“Spegniti!” –disse ad alta voce.
Il computer fece sentire il suo suono caratteristico e dopo alcuni secondi ritornò il silenzio nell’appartamento. Poi Gianluca prese uno zaino che portava sempre con sé e se ne andò.
La sua azienda, vicina all’antica stazione radio, si trovava sottoterra. Un piccolo palazzo ristrutturato fungeva da entrata alle moderne installazioni dove lui e i suoi colleghi sviluppavano le loro idee. Non l’aveva fatto così per segretezza ma perché non voleva rovinare il bel passaggio nei dintorni dell’antica stazione del telegrafo. Il palazzo sopra le installazioni era una specie di museo tecnologico, con modelli (sia in legno che in metallo) delle loro creazioni. Un ascensore, in cui si entrava soltanto grazie a una chiave speciale che possedeva chiunque lavorasse sottoterra, dava accesso agli altri piani: anche la chiave era stata una sua invenzione. Soltanto lui era in grado di farne una copia. Non c’erano dubbi che fosse un grande scienziato, ma non se ne vantava. Nel piano più vicino alla superficie c’erano gli uffici amministrativi e della pubblicità, al piano di sotto c’era l’ufficio progetti e, nel piano più lontano dalla superficie, i prototipi. Era lì dove lui avrebbe dovuto lavorare quella mattina per risolvere i problemi dell’umanoide. Si trattava di un progetto che aveva cominciato a mettere in pratica all’inizio del mese di gennaio. Dal momento in cui gli era venuta l’idea era stato cosciente della difficoltà di realizzarla, ma questo non lo spaventava. La sfida, questa era la cosa più importante: accettarla e lavorare per farla diventare reale.
In quella stanza erano ammucchiati tutti i prototipi che avevano costruito negli ultimi dieci anni. Per sicurezza nessuno di essi funzionava, c’era qualcosa in ognuno di loro che mancava; i pezzi mancanti erano tenuti in un posto che soltanto lui conosceva. Al centro della stanza c’era un robot, grande quanto un ragazzino di dieci anni; i suoi colleghi vi si erano raduti attorno: Iva, Federico, Nino, Alessandra, Chiara e Fabrizio. Ognuno di loro era seduto davanti a un computer diverso cercando di risolvere il problema che da tanto tempo gli faceva lavorare il cervello. Gianluca si sedette al suo posto, tra Nino e Alessandra. Da ogni computer usciva un cavo che finiva in un posto diverso del robot. Diede il buongiorno e cominció a spiegare la soluzione che, soltanto poche ore prima, aveva trovato.
-“Allora, ce l’abbiamo fatta?” –chiese Iva.
-“Credo di sì.” –rispose Gianluca. –“Vediamo cosa succede. Forza ragazzi!”.
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